sabato 27 febbraio 2016

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: ROBERTO ROVERSI


di FRANCESCO GALLINA


Per la consueta rubrica poetica del sabato, #busillisblog vi propone una poesia di Roberto Roversi, paroliere prediletto da Lucio Dalla, che incise Anidride Solforosa nel 1975, dalle atmosfere distopiche e fortemente innovativa da un punto di vista testuale e vocale. 
La accompagniamo con un olio su tela del surrealista Max Ernst.


ANIDRIDE SOLFOROSA 

di ROBERTO ROVERSI


Max Ernst, Castor and Pollution, 1923


Sono andata via
perché rimanere sempre a Faenza
non è che m’interessasse troppo
non puoi sempre rifugiarti nella foresta;
e sulla spiaggia del mare
l’ombra si scioglie, ti fa disperare.

Ero una ragazza un po’ nervosa
ma intelligente
però di calcio non capivo niente.
Per questo non mi sono sposata, no.

Ma io guardavo il mondo piangendo,
perché ero contenta,
perché ero contenta, perché ero contenta!

‒ Ieri la città si vedeva a malapena
oggi la città si vede tutta intera.

Ieri il mare si scuoteva da fare pena
oggi il mare ha la barba tutta nera.

Gli elaboratori hanno per sorte
di aiutare l’uomo a vincere la morte.

Infatti se il vento dell’inquinamento
tende a salire lo aiutano a morire.

E aiutano anche l’amministrazione
patrimonio forestale in distruzione.




Verrò, verrò, è fuori discussione
perché qualcosa
deve pure accadere.

In giro c’è molta rivoluzione
tu sballi sempre tutto
e soprattutto non mi dai attenzione.

Non vedi, tu non vedi
come il mondo sembra brutto?
Però posso incontrati?

Posso vederti? Posso rivederti?
In un giorno della settimana?
Anche se abiti in una città lontana.

‒ L’uomo, l’uomo, l’uomo,
l’uomo si serve degli elaboratori
per migliorare il mondo in cui si vive.

Percentuali di particelle solide
presenti nell’atmosfera;
tutti i dati raccolti
sono trasmessi all’elaboratore.

Sapremo quante volte fare l’amore
o quante volte i fiumi
in Italia traboccano.

Ma i cittadini di Filadelfia
vivono sotto un cielo pulito.

Io ti segno a dito
e tu segna pure me. Sono felice.

martedì 23 febbraio 2016

MARK ZUCKERBERG, OCULUS E IL MITO DELLA CAVERNA



di FRANCESCO GALLINA








Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli».
«Li vedo», disse.
«Immagina allora degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti d'ogni genere sporgenti dal margine, e statue e altre immagini in pietra e in legno delle più diverse fogge; alcuni portatori, com'è naturale, parlano, altri
tacciono».
«Che strana visione», esclamò, «e che strani prigionieri!».
«Simili a noi», replicai: «innanzitutto credi che tali uomini abbiano visto di se stessi e dei compagni qualcos'altro che le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna di fronte a loro?» «E come potrebbero», rispose, «se sono stati costretti per tutta la vita a tenere il capo immobile?» «E per gli oggetti trasportati non è la stessa cosa?» «Sicuro!».
«Se dunque potessero parlare tra loro, non pensi che prenderebbero per reali le cose che vedono?» «è inevitabile».
«E se nel carcere ci fosse anche un'eco proveniente dalla parete opposta? Ogni volta che uno dei passanti si mettesse a parlare, non credi che essi attribuirebbero quelle parole all'ombra che passa?» «Certo, per Zeus!».
«Allora», aggiunsi, «per questi uomini la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti».
«È del tutto inevitabile», disse.
«Considera dunque», ripresi, «come potrebbero liberarsi e guarire dalle catene e dall'ignoranza, se capitasse loro naturalmente un caso come questo: qualora un prigioniero venisse liberato e costretto d'un tratto ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso la luce, e nel fare tutto ciò soffrisse e per l'abbaglio fosse incapace di scorgere quelle cose di cui prima vedeva le ombre, come credi che reagirebbe se uno gli dicesse che prima vedeva vane apparenze, mentre ora vede qualcosa di più vicino alla realtà e di più vero, perché il suo sguardo è rivolto a oggetti più reali, e inoltre, mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse con alcune domande a rispondere che cos'è? Non credi che si troverebbe in difficoltà e riterrebbe le cose viste prima più vere di quelle che gli vengono mostrate adesso?» «E di molto!», esclamò.
«E se fosse costretto a guardare proprio verso la luce, non gli farebbero male gli occhi e non fuggirebbe, voltandosi indietro verso gli oggetti che può vedere e considerandoli realmente più chiari di quelli che gli vengono mostrati?» «è così », rispose. «E se qualcuno», proseguii, «lo trascinasse a forza da lì su per la salita aspra e ripida e non lo lasciasse prima di averlo condotto alla luce del sole, proverebbe dolore e rabbia a essere trascinato, e una volta giunto alla luce, con gli occhi accecati dal bagliore, non potrebbe vedere neppure uno degli oggetti che ora chiamiamo veri?» «No, non potrebbe, almeno tutto a un tratto», rispose. «Se volesse vedere gli oggetti che stanno di sopra avrebbe bisogno di abituarvisi, credo. Innanzitutto discernerebbe con la massima facilità le ombre, poi le immagini degli uomini e degli altri oggetti riflesse nell'acqua, infine le cose reali; in seguito gli sarebbe più facile osservare di notte i corpi celesti e il cielo, alla luce delle stelle e della luna, che di giorno il sole e la luce solare». «Come no? » «Per ultimo, credo, potrebbe contemplare il sole, non la sua immagine riflessa nell'acqua o in una superficie non propria, ma così com'è nella sua realtà e nella sua sede». «Per forza», disse. «In seguito potrebbe dedurre che è il sole a regolare le stagioni e gli anni e a governare tutto quanto è nel mondo visibile, e he in qualche modo esso è causa di tutto ciò che i prigionieri vedevano». «è chiaro», disse, «che dopo quelle esperienze arriverà a queste conclusioni». «E allora? Credi che lui, ricordandosi della sua prima dimora, della sapienza di laggiù e dei vecchi compagni di prigionia, non si riterrebbe fortunato per il mutamento di condizione e non avrebbe compassione di loro?» «Certamente».


Quello che avete appena letto è il celeberrimo passo tratto dal settimo libro della Repubblica di Platone: è il mito della caverna. Quale morale sottosta a questo racconto? Una e una sola: dentro la caverna c'è la realtà, pura opinione, foto slavata del vero, copia inautentica di Idee sovrannaturali; fuori dalla caverna c'è la realtà virtuale delle Idee, autentiche, vere, bellissime, emozionanti, simboleggiate dal Sole, un sole virtuale, s'intende, non certo quello abbronzante. Ma la verità ha un costo: quando lo schiavo esce dalla caverna e rientra, viene assassinato, perché nessuno crede in quello che ha visto. 
Cambiamo pagina: siamo nel 2016. La caverna di cui stiamo parlando è il centro congressi che ospita il Mobile World Congress. Il Sole è Oculus, acquistato da Facebook due anni fa, e ora tecnologia resa a disposizione di tutti. Il costo non è più la morte (almeno quella fisica, quella psicologica...), ma qualche centinaio di euro, perché questo è il prezzo dei Gear Vr, che però sono in omaggio per chi acquista il nuovo Galaxy S7. La realtà virtuale afferma il dio Zuckerberg è la piattaforma più social di tutte. Il nuovo telefono sembra un’astronave, gli scenari cambiano, le prospettive esplodono. Zuckerberg racconta che oltre 200 tra giochi e app sono disponibili per la realtà virtuale, ma ciò che più sbalordisce è la possibilità di comunicare in un modo nuovo: grazie a un algoritmo sviluppato da Oculus servono meno dati per lo streaming di video immersivi, e non è detto che a breve non possano arrivare le videochat virtuali. 

Quando i numeri vincono sulla parola, non resta che esclamare stupefatti: WOW! Ma ho detto stupefatti nel senso di stupefazione, cioè stato di torpore e di distacco dalla realtà provocato dall'uso di sostanze stupefacenti. Gli schiavi del 2016 non vedono più quello che li circonda, nemmeno dio Zuckerberg, che gli passa accanto, sorridendo piacione. Oculus non è più Facebook, e non è nemmeno più il cinema, perché su FB e al cinema posso sempre e comunque muovermi liberamente. Indossando Oculus, invece, vado incontro a una schiavitù volontaria. Perché schiavi non si nasce. Schiavi si diventa. Con Oculus è semplicemente iniziata l'eutanasia del nostro pensiero: Zuckerberg altri non è che un nostro alleato. D'altronde, pensare è faticoso, no? WOW.


sabato 20 febbraio 2016

PERCHÉ NON PIANGERE DELLA MORTE: UMBERTO ECO.




di FRANCESCO GALLINA


Umberto Eco è morto. E giù di lacrimevoli coccodrilli dagli Appennini alle Ande. Ora, anche chi non avrà mai letto una sua pagina, si sentirà costretto a citarne un aforisma preso a caso sul Web, come va di moda fare quando muore un'auctoritas. Non sapendo che, facendo ciò, si tradisce proprio il pensiero anticonformista di Eco, che prima dell'avvento in Italia di Bachtin, ci dimostra come ridere delle autorità non sia solo giusto, ma rivoluzionario. Il riso è carnascialesco, è espressione di rifiuto, è l'antitesi del perbenismo. Sono certo che davanti al suo feretro, Eco, ci avrebbe voluto come Franti. E ne sarebbe stato felice. #busillisblog dedica eccezionalmente la sua consueta rubrica di poesia del sabato a una delle pagine in prosa più dissacranti di Diario Minimo (1963), il primo riuscitissimo tentativo di beffare l'autore del patetico e del buonismo per eccellenza: Edmondo De Amicis. 





ELOGIO DI FRANTI* 

*Se ne propongono alcuni estratti.


"E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un'altra sezione." 

Così alla pagina di martedì 25 ottobre Enrico introduce ai lettori il personaggio di Franti. Di tutti gli altri è detto qualcosa di più, cosa facesse il padre, in che eccellessero a scuola, come portassero la giacca o si levassero i peluzzi dai panni: ma di Franti niente altro, egli non ha estrazione sociale, caratteristiche fisionomiche o passioni palesi. Tosto e tristo, tale il suo carattere, determinato al principio dell'azione, così che non si debba supporre che gli eventi e le catastrofi lo mutino o lo pongano in relazione dialettica con alcunché. Franti da Franti non esce; e Franti morirà: "ma Franti dicono che non verrà più perché lo metteranno all'ergastolo", si scrive il lunedì 6 marzo, e da quel punto, che è a metà del volume, non se ne farà più motto. Chi sia codesto Enrico è sin troppo risaputo: di mediocre intelletto (non si sa che voti prenda né se riesca promosso a fine anno), oppresso sin dalla più tenera infanzia da un padre, da una madre e da una sorella che gli scrivono nottetempo, come sicari dell'OAS, lettere pressoché minatorie sul suo diario, egli vive continuamente immerso in umbratili complessi, un po' diviso tra l'ammirazione prona per un Garrone che non perde occasione per far della bassa retorica elettorale ("Son io!" e il maestro, babbeo: "Tu sei un'anima nobile!"; e se qualcuno dà noia al supplente, subito Garrone dalla parte del potente e dell'ordine: "guai a chi lo fa inquietare, abusate perché è buono, il primo che gli fa ancora uno scherzo lo aspetto fuori e gli rompo i denti!", così il supplente rientra e vede tutti zitti, lui, Garrone, con gli occhi che mandavan fiamme "un leoncello furioso, pareva" - e gli dice "come avrebbe detto a un fratello" ti ringrazio Garrone, e via, Garrone è a posto per tutto l'anno, ditemi se non era figlio di mignotta) e d'altro lato una sorta di attrazione omosessuale per il Derossi, che è "il più bello di tutti", scuote i capelli biondi, prende il primo premio, si fa baciare dal giovane calabrese e sembra insomma certi personaggi dei libri di Arbasino. [...]

E la domenica 11 ottobre, e il martedì 14 costui scriverà ancora una lettera guerrafondaia al figlio, parlando di Roma meravigliosa e eterna, di Patria sacra, di sangue da donare e ultimo bacio alla bandiera benedetta; e sempre senza la minima chiarezza ideologica, sì che a distanza di pochi giorni intesse con il medesimo tono l'elogio di Cavour e di Garibaldi, dimostrando di non aver capito nulla delle forze profonde che divisero il nostro Risorgimento. E ti educava così questo figlio alla violenza e alla retorica nazionale, all'interclassismo corporativista e all'umanitarismo paternalista, sì che svolgendosi la vicenda nell'ottantadue, possiamo immaginarci Enrico interventista quarantenne (e quindi a casa, da tavolino), all'inizio della guerra, e professionista fiancheggiatore delle squadre d'azione nel ventidue, lieto infine che il Paese sia andato in mano a un uomo forte garante dell'ordine e della fratellanza. Il Derossi a quell'epoca era già morto sicuramente in guerra, volontario, caduto scagliando la sua medaglia di primo della classe in faccia al nemico, Votini era passato spia dell'Ovra e Nobis, che doveva avere possedimenti in campagna, e già da piccolo dava dello straccione ai figli di carbonai, agrario fiancheggiatore delle squadre, sicuramente era già federale. C'è da sperare che il muratorino e il Precossi si fossero almeno presi il loro olio di ricino e tramassero nell'ombra; e forse Stardi, sgobbone com'era, si era letto tutto il Capitale, senonaltro per puntiglio, e quindi qualcosa aveva capito; ma Garoffi di certo si era allineato e non faceva politica, e Coretti, con quel padre che gli passava calda calda la carezza del Re, chissà che non facesse la guardia d'onore all'Uomo della Provvidenza. [...]

"E quell'infame sorrise". Ma se vogliamo giocare a questo gioco allora giochiamo. Franti non ha sostrato, non si sa come nasca e come muoia, egli è l'incarnazione del male? Ebbene sia, accettiamolo come tale e come tale vediamolo, elemento dialettico nel gran corso della vita scolastica deamicisiana, momento negativo in tutta la sua evidenza trionfante. Ma prendiamolo come tale, e non lasciamoci confondere dai piccoli particolari di contorno: che se Franti non ha sfondo sociologico non devono averlo neppure le persone di cui egli pare prendersi beffa, la mamma di Crossi che egli scimmiotta nella sua condizione di erbivendola, e il muratore caduto sul lavoro al passaggio del quale Franti sorride: se facciamo della demagogia sul muratore e sull'erbivendola, allora facciamola anche su Franti e sulle determinazioni economiche della sua perfidia. Se no accettiamolo come un principio senza fondo e senza storia, e affrontiamolo pensando che di lui Enrico ci abbia parlato come gli storici romani dei cartaginesi: che erano popolo industre e laborioso, gran mercanti e navigatori, ma siccome non possedevano un'industria culturale non commissionavano elogi e libelli, mentre i romani, meglio organizzati quanto a uffici studi, avevano buon gioco a affidare alla storia terribili notizie sul conto dei nemici, dicendo che mettevano i bambini nel ventre di una statua infuocata; che se poi loro, i conquistatori, distruggevano Cartagine e spargevano sale sulle rovine, quello era ben fatto. [...]

Ciò che Franti fa è vario e assai complesso: sale su un banco e provoca Crossi, e fa male, ma quando Crossi gli tira un calamaio egli fa civetta, e il calamaio va a colpire il maestro che entrava. Civetta meritoria quant'altre mai, dunque, perché questo maestro è lo stesso ributtante leccapiedi che in un diverbio tra Coraci (il calabrese) e Nobis, dà ragione a Coraci e torto a Nobis, ma a Nobis dà del voi mentre a Coraci dà del tu. Dà del tu anche a Franti, naturalmente, perché costui non ha un padre distinto con una gran barba nera. Più avanti vediamo Franti che ride mentre passa un reggimento di fanteria; Enrico tiene a precisare che Franti "fece una risata in faccia a un soldato che zoppicava", ma non si vede perché in una sfilata preceduta dalla banda (come Enrico ci dice), qualche colonnello autolesionista avrebbe infilato un soldato che zoppicava. Dunque verosimilmente il soldato non zoppicava, e Franti irrideva la sfilata tout court: e vedete che la cosa cambia già aspetto. Se poi si considera che, istigati dal direttore, i ragazzi salutano militarmente la bandiera, che un ufficiale li guarda sorridendo e restituisce il saluto con la mano e un tizio che aveva all'occhiello il nastrino delle campagne di Crimea, un "ufficiale pensionato", dice bravi ragazzi, allora ci accorgiamo che il riso di Franti non era poi così gratuitamente malvagio ma assumeva un valore correttivo: costituiva l'ultimo grido del buon senso ferito di fronte alla frenesia collettiva che stava prendendo i ragazzi che già cantavano "battendo il tempo con le righe sugli zaini e sulle cartelle ' e con "cento grida allegre accompagnavano gli squilli delle trombe come un canto di guerra". E' in circostanze del genere che Franti sorride e ride: "Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei Funerali del Re; e Franti rise". Franti sorride di fronte a vecchie inferme, a operai feriti, a madri piangenti, a maestri canuti, Franti lancia sassi contro i vetri della scuola serale e cerca di picchiare Stardi che, poverino, gli ha fatto solo la spia. Franti, se diamo ascolto ad Enrico, ride troppo: il suo ghigno non è normale, il suo sorriso cinico è stereotipo, quasi deformante; chi ride così certo non è contento, oppure ride perché ha una missione. Franti nel cosmo del Cuore rappresenta la Negazione, ma - strano a dirsi - la Negazione assume i modi del Riso.




Franti ride perché è cattivo - pensa Enrico - ma di fatto pare cattivo perché ride. Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una forma di virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è riso e cattiveria in Franti altro non è che negazione di un mondo dominato dal cuore, o meglio ancora di un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa. Per questo Enrico deve rifiutare Franti: perché se Franti appare un inadattato al mondo in cui vive e lo coinvolge in un sogghigno epocale (Franti mette tra parentesi qualsiasi fatto che invece coinvolga emotivamente gli altri) l'unico modo di esorcizzare la scepsi negativa di Franti è quello di denunciare Franti come strega. E di non accettarlo a priori. E infatti nel gran mare di languorosa melassa che pervade tutto il diario di Enrico, in quell'orgia di perdoni fraterni, di baci appiccicaticci, di abbracci interclassisti, di galeotti redenti e gaudenti in maschera che regalano smeraldi a bambine smarrite tra la folla, tra madri che si sostengono a vicenda, maestrine dalla penna rossa, signori che abbracciano carbonai e muratori che biascicano lagrime di riconoscenza sulla spalla di ricchi possidenti, là dove tutti si amano, si comprendono, si perdonano, si accarezzano, baciano le mani a voscienza, leccano il cuore a tamburini sardi, cospargono di fiori vedette lombarde e coprono d'oro patrioti padovani, una sola volta appare una parola di odio, di odio senza riserve, senza pentimenti e senza rimorsi: ed è quando Enrico ci traccia il ritratto morale di Franti. [...]

È naturale che in questo crescendo di accuse e di infamie la nostra simpatia vada tutta a Franti (pensate, "si copri il viso con le mani, come se piangesse, e rideva!". Anche De Amicis non rimane indifferente di fronte a tanta grandezza, e mai la sua scrittura è stata più tacitiana, nobilitata dalla materia): ma è vero del pari che tanto accumularsi di nefandezza è troppo wagneriano per essere normale, sfiora il titanico, deve avere un valore emblematico e riecheggiare un momento di civiltà; una figura della coscienza universale, lo voglia o no l'autore; e se la nostra dotta memoria cerca solo per un poco ecco che questo ritratto finisce per evocarne un altro, quasi parallelo: ed è il ritratto di Panurge. [...]  Ora Panurge non nasce e non arriva a caso: non è gigante né Dipsodo, e non entra nella regale società pantagruelica con l'aria di chi voglia sovvertire un ordine dalle radici; la società in cui vive l'accetta e vi si integra - ci beve e ci si ciba, chiedendo anzi ristoro in molte lingue - vive la vita di corte e segue il sovrano nei suoi viaggi, accetta dispute con dottori d'oltremanica e frequenta la borghesia dei dintorni. Ma si integra à rebours, ogni suo gesto appare sfasato rispetto alla norma, accetta le convenzioni (la messa) per sovvertirle dall'interno (occasione per distribuir pidocchi), intraprende discorsi ma per turlupinare l'interlocutore, veste come gli altri ma fa delle sue vesti nascondiglio per i suoi trucchi, nessuno dei quali mira specificatamente a un utile particolare, ma tutti nell'insieme a una deformazione degli umani rapporti. Proprio per questo, se Gargantua et Pantagruel è il libro che chiude un'epoca e ne apre una nuova, esso lo è proprio per la centralità che vi ha Panurge, poiché il Gargantua è, rispetto alla cultura tardomedievale che si sfa, proprio quel che Panurge è per la corte di Pantagruel, qualcosa che si installa dentro a un ordine e lo mina dall'interno deformandone la fisionomia con atti di gratuita iconoclastia. Compagno di Panurge in questa impresa, è il Riso. Anche Panurge, l'infame, rideva. Ecco dunque profilarsi l'idea di un Franti come motivo metafisico nella sociologia fasulla del Cuore. Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché Enrico identifica il Bene all'ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto ciò che si oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il Riso, lo strumento con cui il novatore occulto mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà col volto del Male, mentre in realtà il ridente - o il sogghignante - altro non è che il maieuta di una diversa società possibile. Per cui bene aveva fatto Baudelaire a identificare il Riso con il Diabolico ed a vedervi il principio del Male. Agli occhi di Colui che tutto sa, il riso non esiste, e scompare dal punto di vista della scienza e delle potenze assolute: è chiaro: dal momento che di un ordine esistente si ha certezza e corresponsabilità, dal momento che vi si assente dogmaticamente o vi si aderisce consustanzialmente, quest'ordine non può essere messo in dubbio, e il primo modo per credervi è di non riderne. Il riso, dice Baudelaire, è proprio dei pazzi: di coloro che non si integrano all'ordine, dunque. Per colpa loro, nel caso dei pazzi; ma nel caso sia colpa dell'Ordine? Chi sarà allora il Ridente? Colui che ha avuto coscienza della caduta, e quindi della provvisorietà dell'ordine dato. Il cattivo dunque, colui che ha colpevolmente mangiato all'albero del bene e del male? Ma questa è l'interpretazione del Ridente data da chi non ride, e accetta l'Ordine. Per lo scolastico messo alla berlina da Panurge, nel dialogo con Thaumaste fatto a gesti e a sberleffi, il gioco di Panurge è un attentato diabolico. Per noi, nati da Rabelais, il gioco di Panurge è allegra profezia di una nuova dialogica, e comunque messa a punto della vecchia, resa dei conti. Chi ride è malvagio solo per chi crede in ciò di cui si ride.

mercoledì 17 febbraio 2016

FRA EROS E VOLUPTAS: IL PALAZZO DUCALE DI PARMA


di FRANCESCO GALLINA


Il soffitto della Sala dell'Aetas Felicior, incorniciato da una citazione della
II Bucolica di Virgilio: "Trahetas sua quemque voluptas".


Ultimamente, gli eventi culturali degni di nota, a Parma, si contano sulle dita di una mano. Fra questi è da segnalare il recente Due Cuori e un Castello, organizzato dall'Associazione Melusine e diramatosi fra il Palazzo Ducale di Parma, il Castello di Torrechiara e il Castello di Roccabianca, per celebrare San Valentino nel bello che solo i grandi maestri del passato sanno offrirci.
La visita guidata è stata condotta da  Alessandra Mordacci e Lia Simonetti ed arricchita dall’Ensemble Silentia Lunae (Maurizio Cadossi, violino barocco; Maria Caruso, soprano, violino barocco, viola da gamba; Richard Benecchi, liuto e tiorba), che ha proposto un concerto intitolato “Amorosi Intrecci”: una panoramica tra lo splendore delle arie e sonate strumentali del Seicento italiano composte, fra gli altri, da Biagio Marini, Marco Uccellini e Andrea Falconieri, attivi presso la corte Farnese a Parma. 


Sala degli uccelli


Sabato 13 febbraio siamo così andati alla scoperta degli splendidi affreschi della residenza farnesiana, ora sede militare e centro dei RIS, eccezionalmente aperta al pubblico per poter non solo godere dei gioielli artistici che contiene, ma venire anche a conoscenza dell'antica conformazione del Parco Ducale, fra aneddoti e suggestive ricostruzioni storiche. Basti pensare ai cosiddetti Du Brasé, oggi "decontestualizzati" all'interno del cortile di Palazzo Cusani (Casa della Musica), ma un tempo grandi protagonisti di una gigantesca fontana - adornata di coralli, smalti e oro - che padroneggiava l'odierno spiazzo antistante il Palazzo. 

Deliziosa chicca, questo paesaggio nordico
di Jan Soens.
Un monumentale scalone settecentesco conduce alla magnificente Sala degli Uccelli, dove troneggia un enorme lampadario in cristallo che rischiara il soffitto ornato a stucco da Benigno Rossi, dove, in ottagoni, sono incastonate più di duecento uccelli di diverse specie. Nelle sale interne, gli splendidi cicli pittorici, risalenti variamente ai secoli XVI-XVII, rappresentano storie d’amore prevalentemente tratte dalla mitologia e dalla letteratura italiana, testimoniando la raffinatissima vita culturale e profana che allietava la Corte dei Farnese nel Cinquecento. Passiamo attraverso la Sala delle tre Leggende, affrescata dal Malosso e impreziosita da due paesaggi del fiammingo Jan Soens; la Sala dell'Amore affrescata da Agostino Carracci; la Sala di Alcina, la più antica, affrescata da Girolamo Mirola  con la collaborazione del Bertoja (Jacopo Zanguidi), con scene tratte dal libro VII dell'Orlando Furioso; la Sala di Erminia, stuccata dalle infiorescenze di Carlo Bossi e decorata con affreschi di Alessandro Tiarini, raffiguranti scene della Gerusalemme liberata; la Sala d'Orfeo affrescata dal Mirola e dal Bertoja fra il 1568 e il 1570, con scene della storia d'amore di Orfeo intervallate da altorilievi scultorei di magistrale fattura.


Splendido dettaglio della Sala di Erminia, dove si ritrae
un volto di donna dietro le vetrate di una finestra.

Si approda infine nella spettacolare Sala dell'Aetas Felicior o del Bacio. Ispirata all'Orlando innamorato del Boiardo e affrescata da Mirola e  Bertoja nel 1570-73, raffigura il mito di Amore e Venere e l'età felice. Notevole il tripudio di colori, la resa pittorica delle colonne di cristallo e i paesaggi sfumati, nebbiosi, eterei.  


Sala dell'Aetas Felicior, detta per ragioni ovvie "del Bacio".

Sono in corso importanti opere di restauro, che saranno in futuro aperte alla cittadinanza, fra le quali si annoverano le opere di Cesare Baglioni a pianterreno. Un appuntamento a cui #busillisblog non mancherà.





lunedì 15 febbraio 2016

TIM E LA LIBERTÀ DI NON DOVER SCEGLIERE, OVVERO DELLA SCHIAVITÙ



di FRANCESCO GALLINA





L'uomo crede di volere la libertà. 
In realtà ne ha una grande paura. Perché? 
Perché la libertà lo obbliga a prendere delle 
decisioni, e le decisioni comportano rischi. [..] 
Se invece si sottomette a un'autorità, allora può 
sperare che l'autorità gli dica quello che è giusto 
fare, e ciò vale tanto più se c'è un'unica autorità 
– come è spesso il caso – che decide per tutta 
la società cosa è utile e cosa invece è nocivo.

Erich Fromm, Il coraggio di essere 



Da quando ho visto lo spot della TIM, credo che l'anima di Kierkegaard si sia reincarnata in Pif o nei dementi (de-mens: colui che non pensa) che curano il marketing dell'agenzia telefonica italiana. Analizzando con occhio critico, lo spot della TIM nasconde significati non solo nocivi, ma tossici e, infine, pericolosissimi. Chi l'ha detto che la filosofia è fatta di idee tutte luminose e positive? Quasi tutti i filosofi, da tremila anni a questa parte. Una buona idea, a proposito, è non prenderli troppo sul serio.

Ma, insomma, che cosa dice di così straordinario lo spot della TIM? Niente di straordinario, infatti, anzi, agghiacciante a dir poco. La morale? Liberi di non poter più scegliere. Cioè schiavi. Pensateci un attimo: libero arbitrio non significa anarchia. L'anarchia è proprio agli antipodi della libertà, perché la libertà esiste solo e soltanto se si imbocca una strada fra una, due o mille possibilità che ci vengono proposte. Se l'anarchia è confusione, la libertà è il coraggioso tentativo di ordine umano (non divino!), che riuscirà o meno, ma è un tentativo, uno step, una chance: una scelta, appunto. Non una e una sola scelta, ma tante scelte, ogni giorno, ogni ora. Tante scelte più o meno ponderate ma, lo dice la parola, scelte, cioè azioni decise, attuate, realizzate. Da potenza ad atto. Poi ci precipiteranno addosso le conseguenze, ma intanto abbiamo scelto, e questo non ci ha resi macchine, automi, computer. Scegliere ci rende vivi, con tutti i nostri difetti, ma vivi. La libertà di non dover scegliere riguarda solo i morti. Per Kierkegaard, invece, la scelta è fonte di angoscia, terribile angoscia. E allora che cosa fa? Delega tutto a Dio, con il suo mistificante concetto di fede, cioè abbandono totale nelle braccia di un Essere assoluto, più islamico che cristiano. Mentre la disperazione, malattia mortale, è data dal rapporto dell'uomo con se stesso, l'angoscia nasce dalla possibilità, dalla scelta. Dio-Tim risolve tutto, cioè deresponsabilizza allo stesso livello di Allah. 

Cosa significa non poter/dover più scegliere? Scivolare in una nevrosi mortifera e paralizzante. Significa vestire gli abiti dei protagonisti di Italo Svevo, sempre indecisi, afasici, vacillanti, incompleti, dis-abili, se non autistici nel senso psichiatrico del termine. Significa restare in quello che Søren Kierkegaard definiva "punto zero", “una scheggia nelle carni” che immobilizza l'uomo, sempre sul baratro di dover scegliere, perché scegliere, per il filosofo danese, è dramma, è tragedia. La ricerca dell'equilibrio fra forze opposte non è altro che vivere in rigor mortis, sulla base di una costante contemplazione monotona, ossessiva, spaesante. Solo i sassi stanno in equilibrio, sempre fermi, cambiati da agenti atmosferici che li levigano o spezzano a loro piacimento: i sassi non si opporranno mai. Ecco allora che il non poter scegliere è sintomo di schiavitù e, nel caso della TIM, schiavitù da tecnologia.  I discorsi, a questo punto, sono due: o la TIM vuole renderci delle amebe o non ha fatto i calcoli con le possibili controindicazioni di quanto afferma. Ovvero che un cliente come me, che di avere infinite (sottolineo: infinite) possibilità non gliene frega assolutamente nulla. E quindi può fare a meno della TIM e dei suoi spot inquietanti. 

L'angoscia è la vertigine della libertà. Bene. Anzi, male, perché allora non siamo liberi. Mai. E se comunicare è vivere, non scegliere è morire. La tecnologia - ci dice Pif - ci permette di non dover scegliere. E aggiunge, beffardo: "Non è fantastico?". 
Francamente, Pif: vaffanculo. 

sabato 13 febbraio 2016

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: GIOVANNI PASCOLI



di FRANCESCO GALLINA



Nella rappresentazione della natura, grande è la distanza fra  il poeta Giovanni Pascoli e il pittore Antonio Ligabue. Eppure, entrambi la osservano con l'occhio straniato di chi ha l'animo sofferente, lacerato da da lutti non rielaborati, assenze e nevrosi. L'uno ricerca l'essenza infantile del fanciullino, con la sua vista platonica capace di penetrare al di là della buccia superficiale del reale; l'altro, invece, ci regala la potenza del concreto, l'epica dialettica che pervade il creato. Fanno dell'animale e della violenza istintuale della natura il perno attorno al quale ruota la loro poetica, contemplando da prospettive esistenziali diverse, ma pur sempre tangenti, a cui #busillisblog rende omaggio nella sua consueta artistico-poetica del sabato. 




GALLINE

da MYRICAE di GIOVANNI PASCOLI



Antonio Ligabue, Lotta di galli





Al cader delle foglie, alla massaia
non piange il vecchio cor, come a noi grami:
che d’arguti galletti ha piena l’aia;

e spessi nella pace del mattino
delle utili galline ode i richiami:
zeppo il granaio; il vin canta nel tino.

Cantano a sera intorno a lei stornelli
le fiorenti ragazze occhi pensosi,
mentre il granturco sfogliano, e i monelli
ruzzano nei cartocci strepitosi.

martedì 9 febbraio 2016

SANREMO, FESTIVAL DELL'ANALFABETISMO E DELLA NEVROSI




di FRANCESCO GALLINA






Per testare il livello culturale dell'Italia non servono grandi studi di statistica. Bastano le canzoni di Sanremo per avere una cartina al tornasole di quale sia il grado di istruzione e di tecnica scrittoria che aleggia in Italia. 

L'italiano mediocre, quello che mastica il vocabolario di un'otaria, apprezza il vuoto. Attenzione: non il semplice, ma il vuoto. La parola svuotata del suo contenuto, a Sanremo, va alla grande: è, anzi, il primo step per accedere all'Ariston. La Rai, che a partire dagli anni '70-'80 ha intrapreso la strada della propria decadenza, sa che più sono condite di stupidità, più le canzoni del Festival di Sanremo saranno seguite e trasmesse alla radio. A noi di #busillisblog, per una volta, non interessa l'esecuzione musicale, ma il testo standard delle canzoni, almeno quelle degli ultimi dieci anni.

Il cittadino mediocre del mondo ama l'amore. E lo ama in tutti i sensi, a tal punto da toccare le tette di una statua raffigurante una giovane (mai esistita) che, per amore, si è suicidata. Quindi, l'italiano, come Giulietta, ama anche la morte. Facciamo due più due e il gioco è fatto: "morire per amore" sarà il tema prevalente, accostato all'amore bello, stellato, profondo, fiorellato, chic. L'importante è che venga dal cuore, perché venisse dal cervello nessuno capirebbe un tubo. Poi ci sono testi cantati col podice ma dignitosi, come Io sono una finestra di Platinette e Di Michele, o testi banali con una melodia gradevole come Una finestra tra le stelle. Poi ci sono i Rino Gaetano, i Bersani, i Cristicchi. Infine gli Elio e le Storie Tese, che nel 2013 si piazzano al secondo posto con uno dei testi più bislacchi e attraenti dell'ultimo decennio: con La canzone mononota salgono sul podio di un Festival mononoto, ma sono in pochi ad accorgersene. 

L'unica canzone vincitrice che sfrutta più di tutte il lemma amore è Chiamami ancora amore di Roberto Vecchioni, dotato di un testo meraviglioso non fosse per quell'amore tanto perché va di moda metterlo in ritornello, ripetendolo come fosse una nenia, che alla lunga stanca. Dopo le 22 occorrenze in Vecchioni arriva il testo imbarazzante del Volo, gruppo che canta sicuramente meglio di Bocelli (che è tutto fuorché un tenore), ma che vomita parole che sembrano carne di cavallo trita degli anni '60 aromatizzata con olio di marca Claudio Villa del 2015. La voce c'è, inutile nasconderlo, e la melodia è strappalacrime - come di consueto -, d'altronde non potrebbe essere altrimenti. Moderni trovatori, i ragazzi del Volo parlano, più che di un amore, di una nevrosi non passata al setaccio non solo della psicanalisi, ma manco della psicologia. "Amore, solo amore è quello che sento. Dimmi perché quando penso, penso solo a te. Dimmi perché quando vedo, vedo solo te. Dimmi perché quando credo, credo solo in te grande amore.". In pratica, siamo di fronte ad una delle migliori forme ossessivo-compulsive da Vola colomba di Nilla Pizzi fino ai Dear Jeack passando per Sergio Endrigo. Come se l'amore fosse un punto fisso che riduce ad amebe.  Questo, d'altronde, è il fine primario di Sanremo: fare dell'Italia il Bel Paese dell'amore disperato, irrisolto, irraggiungibile, fatto o di poveracci o di bellimbusti. Il testo di Grande amore può essere compreso da chiunque abbia conseguito la licenza media e anche da chi abbia la sola licenza elementare; il 90% dei termini utilizzati appartengono ad uno squallido Vocabolario Base e, tra questi, ben il 96% figurano nel repertorio tradizionale dei lemmi più usati.

Con Sanremo non siamo più di fronte al pop, ma all'ignoranza resa testo (e musica). E se anche le voci sono belle, sono i testi a fare la differenza, come nei film: se la sceneggiatura fa pena, le luci possono anche essere mozzafiato, ma resterà pur sempre una ciofeca. 

La ricetta di Sanremo è l'amore platonico, nevrotico, di una conflittualità scialba, insomma. Canzoni da inetti sveviani, sfaccendati, mistici kirkegaardiani del nuovo millennio alla ricerca di ideali zombie, ma sempre vivi, in un modo o in un altro. Per il resto nessuna novità, nessuna contaminazione, nessun impegno stilistico, melodico o sonoro. Perché Sanremo e Sanremo. Ma Sanremo è anche l'Italia e il livello della sua originalità e del suo ingegno. 

sabato 6 febbraio 2016

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: TRISTAN TZARA



di FRANCESCO GALLINA


In questi giorni ricorrono i cento anni dalla nascita di una delle più eccentriche avanguardie del '900 europeo: il suo fondatore era Tristan Tzara e il movimento si chiamava DADAISMO. Che cosa vuol dire? Nulla, puro significante. Installatosi in un paese  neutrale come la Svizzera, il dadaismo corrode ogni certezza politica e ideologica attraverso lo strumento del riso, che è da sempre dissacrante forma di protesta. Nel mirino c'era l'inesauribile conflitto mondiale, ma anche sublimi idee risorgimentali come l'ordine, la gerarchia, la razionalità.  Contro la politica, apolidi e anarchici, il dadaismo agisce come una goccia di acido muriatico: brucia e perfora all'istante, per poi cicatrizzare subito dopo. E così che il dadaismo nasce e muore nell'arco di tre anni, ma influisce su tutte le principali avanguardie e neoavanguardie novecentesche, copiato a tal punto da ritrovarci artisti dei giorni nostri convinti di proporre qualcosa di realmente nuovo, quando si tratta di finte e irritanti provocazioni già viste. Nel 1919 ha così fine l'esperienza del Cabaret Voltaire che aveva visto protagonisti, oltre Tzara, anche Man Ray, Hugo Ball, Hans Harp, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck. Dadaismo è vita e morte, rinascita e distruzione, tutto e nulla. Ma è soprattutto una delle meno pericolose e più interessanti valvole di sfogo che il Novecento, con la sua predisposizione alla tortura e al dolore, abbia creato. Quella che vi proponiamo è la rivoluzionaria ars poetica dadaista, tutta colla e caso, ma ancora - e soprattutto - artigianale. Che se ci pensiamo, esclusa l'artigianalità, è la stessa regola che molti poetastri contemporanei banalmente adottano. Il lato oscuro delle avanguardie è stata proprio la loro ricezione: se possono farlo loro, possiamo farlo tutti. Scrivere poesie a caso è diventato lo sport dei fannulloni. Un tabù, questo, da non dire. Ma come i dadaisti, anche noi di #busillisblog ce ne freghiamo, e risolviamo tutto con una salubre alzata di spalle.



TRISTAN TZARA 




MANIFESTO SULL'AMORE DEBOLE E L'AMORE AMARO




Prendete un giornale.
Prendete delle forbici.
Scegliete da questo giornale un articolo avente la lunghezza che desiderate dare alla vostra poesia.
Ritagliate l’articolo.
Ritagliate poi con cura ciascuna delle parole che formano l’articolo e mettetele in un sacchetto.
Agitate dolcemente.
Tirate fuori ciascun ritaglio uno dopo l’altro disponendoli nell’ordine in cui sono usciti dal sacchetto.
Copiate scrupolosamente.
La poesia vi rassomiglierà.
Ed eccovi diventato uno scrittore infinitamente originale e di una sensibilità incantevole, benché incompreso dal volgo.

giovedì 4 febbraio 2016

IL POLITICALLY CORRECT L'HA INVENTATO E. DE AMICIS


di FRANCESCO GALLINA





Nelli è uno dei cinquantaquattro compagni di classe di Enrico Bottini, il protagonista di Cuore (1886), ancora lettura tradizionale della mia generazione. Ora non più. Per chi non lo conoscesse, Cuore, bestseller di Edmondo De Amicis, è il diario di un figlio della Patria Italia i cui genitori, affetti da forme ossessivo-compulsive, esaltano disperatamente gli eroi e i martiri, inneggiando all'"avere cuore" (non sia mai il cervello!) verso l'umanità tutta, prostrandosi alle necessità di ogni singolo essere umano, ma mai staccando il sedere dai privilegi di classe. Un libro intriso di patetismo ma, cosa ancor più fastidiosa, di trito moralismo. Enrico è lo specchio di uno Stato privo di qualsiasi senso: l'Italia, una ciambella fatta in fretta tanto per farla, ma venuta fuori grama e non con uno, ma infiniti buchi, talmente tanti che non ancora oggi non esiste. O meglio, esiste lo Stato in quanto delimitato da confini, ma non esiste un benché minimo senso di nazionalità.

Ma bando alle ciance (sulle cose che non esistono meglio non perdere tempo no?): chi è Nelli? Nelli è il prototipo del diversamente abile. Non è autistico, Nelli, no: Nelli è  "un povero gobbino, gracile e col viso smunto". Dato che il padre di Enrico è un uomo di cuore, invita caldamente il figlio ad aprire le porte ai propri compagni perché divengano suoi amici. Il giorno in cui tocca a Nelli mettere i piedi in casa di Enrico, però, succede qualcosa di strano. Un quadretto raffigurante il gobbo Rigoletto scompare momentaneamente da una parete: l'ha rubato Nelli? Per niente: l'ha nascosto l'ingegner Bottini, perché guai far vedere un gobbo a un gobbo. Se vi si immedesimasse, se vi si riconoscesse, potrebbe offendersi. Molto. 

Da notare, fra l'altro, che Cuore è un glicemico elogio ai grandi (ma utopici) ideali risorgimentali: chi mai più di Giuseppe Verdi potrebbe rappresentarli? Come Mazzini e Garibaldi, come Vittorio Emanuele II, anche Verdi dovrebbe essere icona venerabile, inviolabile. E invece no. C'è qualcosa che fa pensare al padre di Bottini che è meglio togliere un'opera d'arte pur di non urtare la sensibilità di un soggetto. E farebbe bene, se solo sapesse che Nelli prova dolore nel vedere uomini gobbi. Ma Bottini senior non lo sa: è una sua supposizione, una teoria balzana. Prima di tutto considera Nelli un disgraziato, da rispettare, ma pur sempre un disgraziato; in secondo luogo, ogni qual volta lo nomina, non dimentica mai di appioppargli l'epiteto di "gobbo" o "gobbino". Stando al gioco di De Amicis, al bambino non può fregare assolutamente nulla del giudizio di un lettore eventuale, perché il diario nasce per restare cosa privata del bambino. Solo più tardi...

Ecco dunque l'italiano di oggi, ieri. Il virus del politically correct è già tutto lì: nascondere il crocifisso per non disturbare l'islamico, introdurre le festività religiose islamiche per non infastidire i musulmani, coprire le statue per non far cadere in peccato Rohani. Ma siamo poi sicuri che a Rohani gliene fregasse qualcosa di quelle statue? Oppure siamo tutti degli squallidi Bottini che, pur di mostrare il nostro buonismo da quattro soldi, siamo pronti a vendere anche il nostro deretano? Come l'adulto Bottini, siamo quelli che preferiscono nascondere il proprio corpo pur di non mostrarlo ai bimbi rachitici, come se  fosse legge che i rachitici debbano odiare chi è sano. Sicuramente chi è sano, Bottini junior, non si lascia sfuggire parole di commiserazione per queste povere creature di Dio.

Se Cuore voleva "fare gli italiani", forse, ci è pienamente riuscito. Il virus del politically correct ha attecchito: gridiamo alla libertà, ma siamo campioni nella sottomissione, pronti a rinunciare al diritto più importante che ci è stato concesso: parlare, pensare.