lunedì 24 ottobre 2016

IL LATO DI 54 cm: A TORINO, IL PALAZZO NATO DA UNA SCOMMESSA



di FRANCESCO GALLINA







Visitare Torino e parlare della Mole o degli enigmi savoiardi ovunque sparsi sarebbe forse un po' troppo scontato. E allora #busillisblog vi accompagna alla scoperta di una chicca che - voci attendibili mi hanno riferito - risulta poco conosciuta dalla nuova generazione torinese. Non parleremo della Mole, no, ma il nostro racconto ha pur sempre per protagonista Antonelli, l'architetto e politico Alessandro Antonelli.

Stiamo parlando di una rarità disertata da cartelli stradali e guide turistiche. Un palazzo apparentemente normale, che potrebbe distinguersi dai suoi 'colleghi' adiacenti per i soffici e caldi toni accesi, sul giallo e rosso ocra. Di certo spicca per il suo neoclassicismo eclettico, accanto a un palazzaccio del secondo dopoguerra che ospita un piccolo centro fitness. Ma la sua particolarità non è questa, e nemmeno l'essere stato covo di radicali e carbonari, o luogo in cui Niccolò Tommaseo elaborò il suo monumentale Dizionario della Lingua Italiana




Alle radici di questo palazzo, all'angolo fra Corso Maurizio e Via Giulia Barolo, c'è una scommessa. O meglio, una ripicca. Progettati alcuni edifici abitativi nel quartiere di Vanchiglia, ad Antonelli viene offerto un esiguo lembo di terreno: lui, al vicino proprietario, ne chiede di più, per costruirci un palazzo, ma le sue richieste sono programmaticamente ignorate. E allora decide che il palazzo si costruisce lo stesso. L'idea è stramba, il progetto assurdo, se non - ai tempi - giudicato ridicolo. Non c'è un solo uomo che creda nella stabilità di un palazzo un cui lato è di soli 54 centimetri. A crederci è il suo fautore, l'unico che vi si stabilisca insieme alla moglie, Francesca Scaccabarozzi.

Avete capito bene. 54 cm. Casa Scaccabarozzi, è un palazzo alto circa 27 metri e di lato 4,35mX16mX54cm, costruito su nove piani, di cui due sottoterra. Un triangolo, praticamente, se non che i 54 cm sono stati fondamentali per inserirvi la canna fumaria. Nessuno ci avrebbe scommesso una lira: quella casa sarebbe dovuta crollare; troppo esile, filiforme, paradossale, per restare in piedi. Eppure eccola, quella che la storia ci ha tramandato come la Fetta di polenta, per il suo colore, per la sua forma. Sopravvissuta a un'esplosione del 1852, al terremoto del 1887. Grazie alla qualità dei materiali e alle profonde fondamenta, resta incolume persino ai bombardamenti su Torino durante la Seconda Guerra Mondiale. 

Entrando da Corso Maurizio c'è il rischio di non accorgersene. Ma basta puntare il naso verso il cielo, e la sorpresa è tanta, fra bugnato, lesene e balconcini aggettanti. Ci sarebbe da domandarsi se, a distanza di cinquant'anni, il Flatirion Building della Grande Mela non si sia ispirato di soppiatto al progetto dell'Antonelli. Le storie sono simili. Anche il "ferro da stiro" di New York, agli inzi del '900, venne guardato con estrema diffidenza per la sua punta larga solo 2 metri. Chissà se Daniel Burnham, il suo ideatore, non fosse a conoscenza della Fetta di polenta. Nel caso, Antonelli lo vince per virtuosismo e audacia.






sabato 15 ottobre 2016

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: SERGIO CORAZZINI




di FRANCESCO GALLINA


Giovane e solitario Cristo in croce, il tisico Sergio Corazzini scopre nella scrittura del verso  un'arma a cui aggrapparsi, con martoriata autocommiserazione e una punta di ironia. Corazzini, minato dalla malattia, trasfigura la realtà in negativo, valutando i vuoti, pesando le assenze. La luce, ad esempio, manca. Nel sanatorio in cui si trova, manca la luce del sole, il sole-Cristo, ma anche il sole-Bene platonico. Il sole nell'orto viene poche volte, il calore che apporta è manna destinata a ricomparire in un futuro imprecisato. E questo fa soffrire, come Estragone e Vladimiro mentre aspettano il Godot che non arriverà. Sanno che non arriva, eppure lo aspettano. Il sole di Corazzini è stella dei convalescenti, aspirina delle anime afflitte, palliativo per l'anima. 
Per la consueta rubrica del sabato, #busillisblog propone Sonata in bianco minore, poesia dalla struttura teatrale e dal ritmo della filastrocca, tratta da Piccolo libro inutile (1906). Si percepisce l'atmosfera della Digitale purpurea pascoliana, ma qui il simbolo non è dato dal colore rosso, ma dall'assenza di colore. La accompagniamo con un inchiostro su carta di Pollock del 1950.



SONATA IN BIANCO MINORE

da PICCOLO LIBRO INUTILE di SERGIO CORAZZINI










I

— Sorelle, venite a vedere!
— C’è il sole nell’orto, c’è il sole!
— È un povero sole che ha freddo, non senti?
— Sole di convalescenti.
— Suor Anna sorride così.
— Che ci voglia raccontare
una fiaba d’oltre mare!
— È venuto a trovare
noi, povere sperdute,
e, forse un malato lo aspetta
invano al limitare
della sua casa per la sua salute.
— È più bianco della mia cornetta...
— Sorelle, scendiamo nell’orto
prima che se ne vada.

II

— Sorelle, pregatelo a mani
giunte ché torni domani!
— Che torni, per poco, che torni,
però, tutti i giorni!
— Perché non dovrebbe venire?
Noi stiamo per morire.
— Comunichiamocene, sorelle,
prima che vengano le stelle.
— Noi non abbiamo che Gesù,
Maria e niente più.
— Un po’ d’acqua nella scodella
e un po’ di sole nella cella.
— Io mi farò una ghirlandetta
per i miei poveri capelli.
— Io, sorella benedetta,
avrò il miglio per gli uccelli.

III

— Oh, Sorelle, e, se non torna,
che faremo?
— Se non torna, aspetteremo.
— Come è gelido il convento.
— È più gelido il mio cuore.
— Oh, Sorelle, invece, io sento
tutto il sole nel mio cuore.
— Stelle in cielo e vele in mare,
tante vele e tante stelle...
— Accendiamo le candele sull’altare.
— Ricordiamoci, sorelle,
che siamo mortali.
— Regina sine labe originali...
— Che faremo, se non torna?
— Se non torna più, morremo.

giovedì 13 ottobre 2016

INFERNO. QUANDO DA UN LIBRO BRUTTO PUÒ NASCERE UN FILM BELLO (MA NON TROPPO)





di FRANCESCO GALLINA











Basta leggerne qualche pagina, e ci si rende subito conto che Dan Brown scrive male. Non solo Inferno. Per appurarlo è sufficiente entrare in una qualsiasi libreria, aprire le prime pagine e farsi un'idea. A meno che non si abbia il santo desiderio di leggere qualcosa di buono, e allora basta aprire la pagina IBS per capire che l'ultimo romanzo di Brown è il solito pasticcio americano, tanto acclamato quanto brutto. Gli elementi per una storia avvincente ci sono tutti, ma il risultato è una guida turistica romanzata che giova all'Italia perché esoterizza ciò che non dovrebbe essere esoterizzato. E nel Terzo Millennio, questo è tutto. 

Poi, però, può darsi il caso che tu sia un fan di Ron Howard e che il trailer del film tratto da una ciofeca diventi un'ossessione. E così è stato per me Inferno. Che, chiarisco subito, non è un capolavoro. Da un'opera discutibile è difficile che nasca un gioiello cinematografico. Ma Howard è aiutato. E non intendo - economicamente - da Italo, che si fa il suo bel marchettone fissato com'è a incrementare la sua clientela. Faccio riferimento alle musiche elettrizzanti di Hans Zimmer, ma soprattutto alla bellezza artistica delle città in cui la pellicola è girata: Firenze, Venezia e Istanbul. A parte queste ultime due, che ricoprono un ruolo pressoché irrilevante, è l'uso che Howard fa di Firenze a farmi invidia. Tanta invidia. Perché se Parma - la città in cui vivo - trovasse un regista eccellente che ne sapesse sfruttare la bellezza artistico-architettonica, per la nostra città tanti problemi si risolverebbero. Anche questo è Turismo, e il capoluogo toscano non potrà che giovarne per gli anni a venire. Con Howard, veniamo immersi nel cuore pulsante della città: Palazzo Vecchio, Uffizi, Corridoio Vasariano, Giardino di Boboli. Quel che stupisce non è tanto il trionfo di bellezza che traspare dalle scene (merito di un ottimo direttore della fotografia quale Salvatore Totino), quanto semmai la sicurezza con cui Langdon si muova in luoghi che non ha mai visitato. Genio puro (?).

Howard, a differenza di Brown, conosce alla perfezione lingua e stili cinematografici e ci offre un film d'azione ricco di effetti speciali, ma estremamente verisimile (si veda la scena iniziale del suicidio) e dai movimenti di macchina epici. Il film scorre liscio, non fosse per il didascalismo snervante di Langdon, che deve dimostrare di saperne. Eppure, laddove avrebbe potuto far emergere lati davvero esoterici dell'opera del Sommo Poeta, ecco saltare fuori con la solfa dell'amore romantico fra Dante e Beatrice (che un mio saggio scientifico di prossima uscita sfata). Se Firenze ne esce bene, Dante, insomma, ne esce sminuito, e banalizzata la sua opera. Dante è solo una disgraziata pedina capitata nelle mani di uno scrittore potenzialmente bravo ma, all'atto pratico, solo santificato dal marketing. Solo qualche sporadica citazione mentre due fanno l'amore (che infelice coito!), e per il resto quel che emerge è un Dante in chiave neo-malthusiana. Solo che di Malthus non si parla mai.


Gli americani vogliono insegnarci chi è Dante. Non ce la fanno. Ma sono un uomo dalle larghe vedute, e allora dico: se un'operazione come questa può anche solo indurre un giovane traviato dalla brownite cronica a studiare (studiare, non leggere!) la Commedia dantesca, ebbene, sia lodato Inferno (ma non troppo).


mercoledì 5 ottobre 2016

FRA CRISTIANESIMO ED ESOTERISMO: IL LABIRINTO DI PONTREMOLI




di FRANCESCO GALLINA





Aulla è una città senza centro storico. Aulla è l'esempio di come una guerra possa cancellare forma, storia e radici di quella che era (e resta) la trentesima tappa della Via Francigena. Non rimane molto. In mezzo alle monotone palazzine del secondo dopoguerra s'intravedono i lineamenti ieratici di una Fortezza ingiustamente dimenticata - ma che nel '900 ospitò una donna liberale e coraggiosa - e una Chiesa che sembrerebbe identica a tante altre, se non avesse svelato misteri e tesori che un'impresa archeologica ha portato alla luce da soli dieci anni a questa parte.

Esattamente un mese fa, vincendo il Premio Città di Aulla, ho avuto modo di visitare l'Abbazia di San Caprasio e il suo piccolo ma prezioso museo, scrigno di reperti antichi che raccontano di un omicidio, di potere ecclesiastico, di maestri scultori, di reliquie, di piccoli lussi medievali, ma anche di un ordigno inesploso sotto l'altare e - infine - della forza mortifera che il fango del 2011 ha trascinato con sé.

Una traccia dell'alluvione è ancora presente sul calco dilavato di un labirinto. Di tutto il museo, questo è di certo il pezzo meno prezioso. Il gemello autentico si trova nella Chiesa di San Pietro, a Pontremoli, che però non è abitualmente accessibile al pubblico. Si tratta di una lastra in arenaria di 60x83 cm che rappresenta un labirinto formato da unidici spire concentriche che racchiudono il cristogramma IHS. Nella parte bassa si legge l'iscrizione sic currite ut comprehendatis, esortazione di San Paolo ai Corinzi, perché intraprendano la via della salvezza: nelle gare tutti corrono - dice Paolo - ma solo uno conquista il premio. Non ci vuole niente perché nel secolo XII l'incitamento paolino venga sincretizzato con l'archetipo della perdizione per eccellenza: il labirinto. Un labirinto dal respiro manicheo, perché sovrastato da due cavalieri. Sembra volerci comunicare una cosa come: "Nella lotta fra il Bene e il Male, il labirinto è questa nostra terra di dolore. Una sola è la strada che conduce alla Verità.". E la strada è una nel vero senso della parola. Non ci sono date ulteriori chance. Non è la salvezza sulla terra, ma quella celeste, come celeste è la vera Gerusalemme di cui ci parla Agostino nel De civitate dei.

E che cos'è la Verità? IHS, Cristo. Ma il monogramma può essere stato aggiunto in un secondo momento, come anche la citazione paolina. Il caso più sorprendente di questi labirinti detti di "tipo Chartres" è quello raffigurato nell'ex convento di San Francesco di Alatri, in provincia di Frosinone, che ci offre un aiuto esegetico definitivo, mostrandoci non un monogramma ma - ad ora - l'unico Cristo storico dipinto all'interno di un labirinto unicursale. Una rappresentazione affascinante e inquietante allo stesso tempo, che amalgama il mito del Minotauro alle Sacre Scritture, che ignorano del tutto l'archetipo del labirinto. Leggendo i Vangeli, possiamo constatare come ci si possa avvicinare a Cristo senza l'angosciante interposizione di inquietanti labirinti. La vita non è un labirinto: è ardua, ma non un labirinto. La vita dell'uomo era concepita come un labirinto, semmai, per diverse correnti gnostiche, quindi eretiche, dei primi secoli d. C. Ci hanno lasciato traccia del loro pensiero nei vangeli apocrifi, che difatti la Chiesa di Roma ha espulso dal suo canone. Per i Naasseni, ad esempio, il mondo è un labirinto dove l’anima deve errare fino alla sua liberazione. Dentro quelle spire, forse, c'è molto più che un gioco, come i nostri occhi del Duemila sono portati a considerarlo. Dentro quei cerchi concentrici si può ancora percepire - forte - il gusto dell'ellenismo greco-romano, che il Medioevo - con un'apertura mentale a noi sconosciuta - ha fagocitato e rielaborato, tramandandolo fino ai giorni nostri, fino a Franco Maria Ricci. Che, meno crudele di Minosse, ha ideato il suo labirinto come un equivalente addolcito del mitico carcere, perché fosse "anche un Giardino, dove la gente potesse passeggiare, smarrendosi di tanto in tanto, ma senza pericolo". Al centro non c'è un cristogramma, ma una piramide. Come quella Cestia.


sabato 1 ottobre 2016

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: MARINO MORETTI



di FRANCESCO GALLINA



C'è in Marino Moretti il gusto per la rappresentazione del grigiore quotidiano che avvelena le giornate del medio borghese di inizio Novecento. La borghesia non è interessata alla poesia, e allora la poesia si abbassa al suo livello. Programmaticamente. Anche questo è crepuscolarismo, soprattutto questo. Ma c'è anche l'uso di un lessico umile e di una sintassi franta e sincopata. 

Lirica con movenze prosastiche vicine al parlato e al cantabile, In cucina è tratta da Il giardino dei frutti di Marino Moretti, pubblicato nel 1915. #busillisblog ha deciso di proporla per la consueta rubrica poetica del sabato. Lungi dal roboante D'Annunzio, Moretti parla di "tegami /smaltati" (facendoli persino rimare con "t'ami"), di "mani che sanno / di carne cotta in forno": immagini antiliriche, insomma. L'ambiente della cucina è descritto nella sua massima sincerità, senza ampollose perifrasi, tendendo semmai a una semplicità che può tramutarsi in commozione e, solo talvolta, in delicata ironia. 

Accompagniamo la poesia con una sorprendente natura morta del pittore spagnolo Juan Sancez Cotan, vissuto a cavallo fra '500 e '600.


IN CUCINA

da IL GIARDINO DEI FRUTTI di MARINO MORETTI









Madre, se vuoi ch'io t'ami 
come ti conviene, 
resta fra i tuoi tegami 
smaltati bianchi e blu: 
vuoi ch'io ti voglia più 
bene, molto più bene?

Resta in cucina dove 
la tua dolcezza ha un gaio 
riso che mi commuove 
quando passa bel bello 
dall'acquaio al fornello, 
dal fornello all'acquaio;

poi va', corri in giardino 
e coglilo un rametto 
d'adusto ramerino
o di scherzoso alloro
o qualche pomodoro 
ancora un poco aspretto;

poi trita con un muto 
cenno le tue cipolle
giovani pel battuto 
e accortamente schiuma
la pentola che bolle, 
il bricchetto che fuma;

sì che, mentre la fiamma 
si fa sempre più roca 
nella cappa segreta, 
tu pensa che la mamma 
del giovane poeta
sa fare anche la cuoca.

Oh lascia ch'io ti prenda 
queste mani che sanno 
di carne cotta in forno 
e far sempre sapranno 
ogni buona faccenda 
fino all'ultimo giorno;

oh lascia ch'io ti dica: 
“Triste, mammina, triste 
sapere troppe cose 
e cercar fra l'ortica
o fra le vuote ariste 
rose e foglie di rose;

dolce invece sostare 
in questi vaghi odori 
guardando il focolare 
e i fumi di vapori 
che con labile volo 
escono dal paiuolo”.