di FRANCESCO GALLINA
L'ultima volta che sono stato in Campidoglio era a fine marzo, per ritirare un importante primo premio letterario, l'AlberoAndronico. Le scene romane di Spectre erano state finite di girare pochissimi giorni prima, e si vedevano ancora attaccati ai pali quel che restava delle strisce pedonali di divieto poste dalla troupe in prossimità del Colosseo. La bufera sulla capitale d'Italia aveva già proiettato le sue ombre, come tante sono quelle che popolano l'ultimo 007 diretto da Mendes. Con altissime probabilità, l'ultimo interpretato dal migliore - a nostro avviso - dei James Bond. Ombre polipesche, i cui tentacoli si diramano come solo un sistema mafioso sa fare. E ci vuole fiuto per ambientare in un palazzo romano (in realtà il lussuosissimo Grand Hotel Ciudad de Mexico) la reunion dei massimi esponenti dell'associazione criminale SPECTRE, una piovra di farabutti in giacca e cravatta che decide le sorti del mondo. Era dall' '83 che mancava dallo schermo di un film bondiano. Fosse stato diretto da un italiano, la critica se ne sarebbe uscita con metafora del Parlamento italiano e invece, per fortuna l'ha diretto il regista di American Beauty, che si può onestamente annoverare fra i migliori registi contemporanei di film d'azione - e sono davvero pochi. Sapienti movimenti di camera, uso insistito dell'elicottero e del drone per panoramiche mozzafiato e, ultimo ma non ultimo, uno spettacolare piano sequenza nei dieci minuti d'apertura del film, che solo una mano esperta può costruire: sindrome di Birdman?
Il film non è di certo il migliore della saga, ma noi di #busillisblog non vogliamo fare come il 99% della critica, che lo considera paragonandolo a un miracolo cinematografico come è stato Skyfall. Inutile operare sulla base di comparazioni. Consideriamolo una buona volta come una monade a sé stante (benché si accumulino i riferimenti e le citazioni ai tre film precedenti). Ci troviamo davanti a un ottimo prodotto che, oltre alla regia, vede lavorare un eccellente scenografo come Dennis Gassner (premio Oscar per Bugsy, ma ricordiamo anche The Truman Show e Big Fish), un bravo fotografo dalle tinte calde e suadenti come Van Hoytema (che abbiamo incontrato di recente in Interstellar) e, soprattutto, un maestro come Thomas Newmann alla direzione dell'orchestra.
La sceneggiatura è di buon livello, anche se avremmo voluto una maggiore caratterizzazione e profondità del personaggio interpretato dalla giovane promessa Andrew Scott (Max). Veramente azzeccati, invece, i ruoli attribuiti allo spigliato Ben Whishaw (Q), all'erculeo e cagnesco wrestler Dave Bautista (Hinx, che viene introdotto in una scena che è evidente citazione dellos contro fra Oberyn Martell e Clegane in Game of Thrones), alla tenace e "cazzuta" bond girl di Lea Seydoux, Madeleine Swann, e, neanche a dirlo, l'adorevole psicopatico Blofeld, recitato da Christoph Waltz (benché vi sia il rischio che l'attore premio Oscar per Django e Bastardi senza gloria, a lungo andare, si trasformi nella macchietta del megalomane sempre identica a sé stessa). Totalmente fuori luogo, invece, la Bellucci che, grazie a Dio - o agli sceneggiatori Logan e Purvis-, resta sulle scene cinque minuti, e sono i cinque minuti più noiosi e inutili di tutto il film: vien quasi da pensare che la Bellucci abbia sborsato denaro per entrare a tutti i costi in un film che non la riguarda. Ancora una volta, la Monicona nazionale si rivela il grande cinematografico mistero della fede: dizione pastosa, voce comica (ma perché la fanno doppiare?) e porno-impaludata. Va bene tutto, ma pronunciare James Bond Ceims Pond è un delitto inammissibile. La Tea Falco di Tornatore torna sugli schermi in qualità di vedova: lei piange per la morte del marito, noi per quella della buona dizione.
Stendendo un velo mortuario, ci sentiamo comunque di consigliare il film, che chiude il ciclo-Craig, giocando su rimandi e riferimenti del passato, fra cui una rivisitazione parodica del Martini e escamotages narrativi per fare il punto della situazione, già a partire dalla sigla iniziale firmata da Sam Smith (anche in questo caso, non la migliore degli ultimi quattro, se paragonata a Casinò Royale o Skyfall). Intensa e filosoficamente pregnante la scena centrale sul treno del Marocco, teatro di un aspro combattimento (possibile citazione di Sherlock Holmes-Gioco di ombre?) in cui Bond sostiene di non avere mai avuto nella sua vita possibilità di scelta. Madeleine lo contrasta. James si lascia convincere e brinda alla libero arbitrio, ciò che più di tutto riscatta l'uomo dalla sua presunta animalità. Un brindisi a cui prendiamo parte, con grande gioia, insieme a Craig, che dovremo abituarci a vedere in altri panni.
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