di FRANCESCO GALLINA
Umberto Eco è morto. E giù di lacrimevoli coccodrilli dagli Appennini alle Ande. Ora, anche chi non avrà mai letto una sua pagina, si sentirà costretto a citarne un aforisma preso a caso sul Web, come va di moda fare quando muore un'auctoritas. Non sapendo che, facendo ciò, si tradisce proprio il pensiero anticonformista di Eco, che prima dell'avvento in Italia di Bachtin, ci dimostra come ridere delle autorità non sia solo giusto, ma rivoluzionario. Il riso è carnascialesco, è espressione di rifiuto, è l'antitesi del perbenismo. Sono certo che davanti al suo feretro, Eco, ci avrebbe voluto come Franti. E ne sarebbe stato felice. #busillisblog dedica eccezionalmente la sua consueta rubrica di poesia del sabato a una delle pagine in prosa più dissacranti di Diario Minimo (1963), il primo riuscitissimo tentativo di beffare l'autore del patetico e del buonismo per eccellenza: Edmondo De Amicis.
ELOGIO DI FRANTI*
*Se ne propongono alcuni estratti.
"E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso
da un'altra sezione."
Così alla pagina di martedì 25 ottobre Enrico introduce ai lettori il personaggio di
Franti. Di tutti gli altri è detto qualcosa di più, cosa facesse il padre, in che
eccellessero a scuola, come portassero la giacca o si levassero i peluzzi dai panni: ma
di Franti niente altro, egli non ha estrazione sociale, caratteristiche fisionomiche o
passioni palesi. Tosto e tristo, tale il suo carattere, determinato al principio
dell'azione, così che non si debba supporre che gli eventi e le catastrofi lo mutino o lo
pongano in relazione dialettica con alcunché.
Franti da Franti non esce; e Franti morirà: "ma Franti dicono che non verrà più
perché lo metteranno all'ergastolo", si scrive il lunedì 6 marzo, e da quel punto, che è
a metà del volume, non se ne farà più motto.
Chi sia codesto Enrico è sin troppo risaputo: di mediocre intelletto (non si sa che voti
prenda né se riesca promosso a fine anno), oppresso sin dalla più tenera infanzia da
un padre, da una madre e da una sorella che gli scrivono nottetempo, come sicari
dell'OAS, lettere pressoché minatorie sul suo diario, egli vive continuamente
immerso in umbratili complessi, un po' diviso tra l'ammirazione prona per un Garrone
che non perde occasione per far della bassa retorica elettorale ("Son io!" e il maestro,
babbeo: "Tu sei un'anima nobile!"; e se qualcuno dà noia al supplente, subito
Garrone dalla parte del potente e dell'ordine: "guai a chi lo fa inquietare, abusate
perché è buono, il primo che gli fa ancora uno scherzo lo aspetto fuori e gli rompo i
denti!", così il supplente rientra e vede tutti zitti, lui, Garrone, con gli occhi che
mandavan fiamme "un leoncello furioso, pareva" - e gli dice "come avrebbe detto a
un fratello" ti ringrazio Garrone, e via, Garrone è a posto per tutto l'anno, ditemi se
non era figlio di mignotta) e d'altro lato una sorta di attrazione omosessuale per il
Derossi, che è "il più bello di tutti", scuote i capelli biondi, prende il primo premio, si
fa baciare dal giovane calabrese e sembra insomma certi personaggi dei libri di
Arbasino. [...]
E la domenica 11 ottobre, e il martedì 14 costui scriverà ancora una lettera
guerrafondaia al figlio, parlando di Roma meravigliosa e eterna, di Patria sacra, di
sangue da donare e ultimo bacio alla bandiera benedetta; e sempre senza la minima
chiarezza ideologica, sì che a distanza di pochi giorni intesse con il medesimo tono
l'elogio di Cavour e di Garibaldi, dimostrando di non aver capito nulla delle forze
profonde che divisero il nostro Risorgimento. E ti educava così questo figlio alla
violenza e alla retorica nazionale, all'interclassismo corporativista e all'umanitarismo
paternalista, sì che svolgendosi la vicenda nell'ottantadue, possiamo immaginarci
Enrico interventista quarantenne (e quindi a casa, da tavolino), all'inizio della guerra,
e professionista fiancheggiatore delle squadre d'azione nel ventidue, lieto infine che il
Paese sia andato in mano a un uomo forte garante dell'ordine e della fratellanza.
Il Derossi a quell'epoca era già morto sicuramente in guerra, volontario, caduto
scagliando la sua medaglia di primo della classe in faccia al nemico, Votini era
passato spia dell'Ovra e Nobis, che doveva avere possedimenti in campagna, e già da
piccolo dava dello straccione ai figli di carbonai, agrario fiancheggiatore delle
squadre, sicuramente era già federale. C'è da sperare che il muratorino e il Precossi si
fossero almeno presi il loro olio di ricino e tramassero nell'ombra; e forse Stardi,
sgobbone com'era, si era letto tutto il Capitale, senonaltro per puntiglio, e quindi
qualcosa aveva capito; ma Garoffi di certo si era allineato e non faceva politica, e
Coretti, con quel padre che gli passava calda calda la carezza del Re, chissà che non
facesse la guardia d'onore all'Uomo della Provvidenza. [...]
"E quell'infame sorrise".
Ma se vogliamo giocare a questo gioco allora giochiamo. Franti non ha sostrato, non
si sa come nasca e come muoia, egli è l'incarnazione del male? Ebbene sia,
accettiamolo come tale e come tale vediamolo, elemento dialettico nel gran corso
della vita scolastica deamicisiana, momento negativo in tutta la sua evidenza
trionfante. Ma prendiamolo come tale, e non lasciamoci confondere dai piccoli
particolari di contorno: che se Franti non ha sfondo sociologico non devono averlo
neppure le persone di cui egli pare prendersi beffa, la mamma di Crossi che egli
scimmiotta nella sua condizione di erbivendola, e il muratore caduto sul lavoro al
passaggio del quale Franti sorride: se facciamo della demagogia sul muratore e
sull'erbivendola, allora facciamola anche su Franti e sulle determinazioni economiche
della sua perfidia.
Se no accettiamolo come un principio senza fondo e senza storia, e affrontiamolo
pensando che di lui Enrico ci abbia parlato come gli storici romani dei cartaginesi:
che erano popolo industre e laborioso, gran mercanti e navigatori, ma siccome non
possedevano un'industria culturale non commissionavano elogi e libelli, mentre i
romani, meglio organizzati quanto a uffici studi, avevano buon gioco a affidare alla
storia terribili notizie sul conto dei nemici, dicendo che mettevano i bambini nel
ventre di una statua infuocata; che se poi loro, i conquistatori, distruggevano
Cartagine e spargevano sale sulle rovine, quello era ben fatto. [...]
Ciò che Franti fa è vario e assai complesso: sale su un banco e provoca Crossi, e fa
male, ma quando Crossi gli tira un calamaio egli fa civetta, e il calamaio va a colpire il maestro che entrava. Civetta meritoria quant'altre mai, dunque, perché questo
maestro è lo stesso ributtante leccapiedi che in un diverbio tra Coraci (il calabrese) e
Nobis, dà ragione a Coraci e torto a Nobis, ma a Nobis dà del voi mentre a Coraci
dà del tu. Dà del tu anche a Franti, naturalmente, perché costui non ha un padre
distinto con una gran barba nera.
Più avanti vediamo Franti che ride mentre passa un reggimento di fanteria; Enrico
tiene a precisare che Franti "fece una risata in faccia a un soldato che zoppicava", ma
non si vede perché in una sfilata preceduta dalla banda (come Enrico ci dice), qualche
colonnello autolesionista avrebbe infilato un soldato che zoppicava. Dunque
verosimilmente il soldato non zoppicava, e Franti irrideva la sfilata tout court: e
vedete che la cosa cambia già aspetto.
Se poi si considera che, istigati dal direttore, i ragazzi salutano militarmente la
bandiera, che un ufficiale li guarda sorridendo e restituisce il saluto con la mano e un
tizio che aveva all'occhiello il nastrino delle campagne di Crimea, un "ufficiale
pensionato", dice bravi ragazzi, allora ci accorgiamo che il riso di Franti non era poi
così gratuitamente malvagio ma assumeva un valore correttivo: costituiva l'ultimo
grido del buon senso ferito di fronte alla frenesia collettiva che stava prendendo i
ragazzi che già cantavano "battendo il tempo con le righe sugli zaini e sulle cartelle '
e con "cento grida allegre accompagnavano gli squilli delle trombe come un canto di
guerra". E' in circostanze del genere che Franti sorride e ride:
"Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei Funerali del Re; e Franti rise".
Franti sorride di fronte a vecchie inferme, a operai feriti, a madri piangenti, a maestri
canuti, Franti lancia sassi contro i vetri della scuola serale e cerca di picchiare Stardi
che, poverino, gli ha fatto solo la spia. Franti, se diamo ascolto ad Enrico, ride troppo: il suo ghigno non è normale, il suo
sorriso cinico è stereotipo, quasi deformante; chi ride così certo non è contento,
oppure ride perché ha una missione.
Franti nel cosmo del Cuore rappresenta la Negazione, ma - strano a dirsi - la
Negazione assume i modi del Riso.
Franti ride perché è cattivo - pensa Enrico - ma di fatto pare cattivo perché ride.
Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una forma di
virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è riso e cattiveria in
Franti altro non è che negazione di un mondo dominato dal cuore, o meglio ancora di
un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa.
Per questo Enrico deve rifiutare Franti: perché se Franti appare un inadattato al
mondo in cui vive e lo coinvolge in un sogghigno epocale (Franti mette tra parentesi
qualsiasi fatto che invece coinvolga emotivamente gli altri) l'unico modo di esorcizzare la scepsi negativa di Franti è quello di denunciare Franti come strega. E di
non accettarlo a priori.
E infatti nel gran mare di languorosa melassa che pervade tutto il diario di Enrico, in
quell'orgia di perdoni fraterni, di baci appiccicaticci, di abbracci interclassisti, di
galeotti redenti e gaudenti in maschera che regalano smeraldi a bambine smarrite tra
la folla, tra madri che si sostengono a vicenda, maestrine dalla penna rossa, signori
che abbracciano carbonai e muratori che biascicano lagrime di riconoscenza sulla
spalla di ricchi possidenti, là dove tutti si amano, si comprendono, si perdonano, si
accarezzano, baciano le mani a voscienza, leccano il cuore a tamburini sardi,
cospargono di fiori vedette lombarde e coprono d'oro patrioti padovani, una sola volta
appare una parola di odio, di odio senza riserve, senza pentimenti e senza rimorsi: ed
è quando Enrico ci traccia il ritratto morale di Franti. [...]
È naturale che in questo crescendo di accuse e di infamie la nostra simpatia vada
tutta a Franti (pensate, "si copri il viso con le mani, come se piangesse, e rideva!".
Anche De Amicis non rimane indifferente di fronte a tanta grandezza, e mai la sua
scrittura è stata più tacitiana, nobilitata dalla materia): ma è vero del pari che tanto
accumularsi di nefandezza è troppo wagneriano per essere normale, sfiora il titanico,
deve avere un valore emblematico e riecheggiare un momento di civiltà; una figura della coscienza universale, lo voglia o no l'autore; e se la nostra dotta memoria cerca
solo per un poco ecco che questo ritratto finisce per evocarne un altro, quasi
parallelo: ed è il ritratto di Panurge. [...] Ora Panurge non nasce e non arriva a caso: non è gigante né Dipsodo, e non entra
nella regale società pantagruelica con l'aria di chi voglia sovvertire un ordine dalle
radici; la società in cui vive l'accetta e vi si integra - ci beve e ci si ciba, chiedendo
anzi ristoro in molte lingue - vive la vita di corte e segue il sovrano nei suoi viaggi,
accetta dispute con dottori d'oltremanica e frequenta la borghesia dei dintorni. Ma si
integra à rebours, ogni suo gesto appare sfasato rispetto alla norma, accetta le
convenzioni (la messa) per sovvertirle dall'interno (occasione per distribuir pidocchi),
intraprende discorsi ma per turlupinare l'interlocutore, veste come gli altri ma fa delle
sue vesti nascondiglio per i suoi trucchi, nessuno dei quali mira specificatamente a un
utile particolare, ma tutti nell'insieme a una deformazione degli umani rapporti.
Proprio per questo, se Gargantua et Pantagruel è il libro che chiude un'epoca e ne
apre una nuova, esso lo è proprio per la centralità che vi ha Panurge, poiché il
Gargantua è, rispetto alla cultura tardomedievale che si sfa, proprio quel che Panurge
è per la corte di Pantagruel, qualcosa che si installa dentro a un ordine e lo mina dall'interno deformandone la fisionomia con atti di gratuita iconoclastia. Compagno
di Panurge in questa impresa, è il Riso. Anche Panurge, l'infame, rideva.
Ecco dunque profilarsi l'idea di un Franti come motivo metafisico nella sociologia
fasulla del Cuore.
Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché
Enrico identifica il Bene all'ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo
ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto ciò che si
oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il Riso, lo strumento con cui il
novatore occulto mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà
col volto del Male, mentre in realtà il ridente - o il sogghignante - altro non è che il
maieuta di una diversa società possibile.
Per cui bene aveva fatto Baudelaire a identificare il Riso con il Diabolico ed a vedervi
il principio del Male. Agli occhi di Colui che tutto sa, il riso non esiste, e scompare
dal punto di vista della scienza e delle potenze assolute: è chiaro: dal momento che di
un ordine esistente si ha certezza e corresponsabilità, dal momento che vi si assente
dogmaticamente o vi si aderisce consustanzialmente, quest'ordine non può essere
messo in dubbio, e il primo modo per credervi è di non riderne.
Il riso, dice Baudelaire, è proprio dei pazzi: di coloro che non si integrano all'ordine,
dunque. Per colpa loro, nel caso dei pazzi; ma nel caso sia colpa dell'Ordine? Chi sarà
allora il Ridente? Colui che ha avuto coscienza della caduta, e quindi della
provvisorietà dell'ordine dato. Il cattivo dunque, colui che ha colpevolmente
mangiato all'albero del bene e del male? Ma questa è l'interpretazione del Ridente
data da chi non ride, e accetta l'Ordine. Per lo scolastico messo alla berlina da
Panurge, nel dialogo con Thaumaste fatto a gesti e a sberleffi, il gioco di Panurge è
un attentato diabolico. Per noi, nati da Rabelais, il gioco di Panurge è allegra profezia
di una nuova dialogica, e comunque messa a punto della vecchia, resa dei conti.
Chi ride è malvagio solo per chi crede in ciò di cui si ride.
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