di FRANCESCO GALLINA
Una foto che fa paura, perché è vera. Vera, sintetica, ficcante. Tagliente, scandalosa. Il corpicino esanime, spiaggiato, di un bambino siriano pesa più di un macigno, è un pugno nello stomaco. Quella de Il Manifesto del 3/09/2015 è una delle prime pagine più crude, forti ed efficaci di sempre. Con il senso del paradosso, oserei dire, una delle più belle. Con il senso dello scrittore, una delle più comunicative: non dimentichiamoci che il giornalismo è, prima di tutto, comunicazione. Ha il gusto dell'assenzio, quella foto: amara e stordente. Quella foto è come le migliori pagine di Gomorra, quelle dove si parla di carne umana maciullata, segata, vilipesa.
Come ricevere uno schiaffo da un pugile. Le foto non sono mai sbagliate, soprattutto se sono scomode e - allo stesso tempo - rispettose. Il rispetto che dobbiamo ai fotografi, sempre poco ricordati nel giornalismo, è immenso.
Il bambino non si vede in faccia: il che, da un lato, è meglio, e non tanto perché lo dice la Carta di Treviso, ma perché non permette di identificarci in un solo, singolo volto. Un bambino, non quel bambino. L'indeterminatezza, d'altronde, è il fine di ogni guerra degna di questo nome: rendere gli uomini cose, tutti uguali non nel principio dell'uguaglianza, ma dell'alienazione. L'indeterminatezza, però, è anche la figlia dell'ignoranza e questo bambino, diventando simbolo, diventa estremamente generalizzante, come tutti i simboli, interpretabile e manipolabile un po' come se ne ha voglia.
Il bambino non si vede in faccia: il che, da un lato, è meglio, e non tanto perché lo dice la Carta di Treviso, ma perché non permette di identificarci in un solo, singolo volto. Un bambino, non quel bambino. L'indeterminatezza, d'altronde, è il fine di ogni guerra degna di questo nome: rendere gli uomini cose, tutti uguali non nel principio dell'uguaglianza, ma dell'alienazione. L'indeterminatezza, però, è anche la figlia dell'ignoranza e questo bambino, diventando simbolo, diventa estremamente generalizzante, come tutti i simboli, interpretabile e manipolabile un po' come se ne ha voglia.
E qui arrivano le note dolenti.
Il Manifesto, come qualunque altro quotidiano italiano e mondiale, fa da cassa di risonanza ad una particolare fazione politica. Ogni giornale porta avanti una sua ideologia e Il Manifesto, giustamente, porta avanti la propria. Non c'è niente di male ad ammetterlo.
E allora? Allora, se la foto è legittima e legittimamente scorretta, l'impostazione è maledettamente strumentalizzante. Il Manifesto, con questo stratagemma, stimola la sua parte politica a mettersi una mano sul cuore, proprio quella parte politica che vorrebbe fare dell'Italia e dell'Europa - in buona o cattiva fede - una cisterna per tutto il mondo. Una parte politica, insomma, che tende alla non distinzione. E distinguere, in questo mondo a buon diritto finito e limitato, è quanto di più buono si debba fare per restare nei margini di quell'umanità tanto sbandierata. L'uguaglianza, basandosi sul rispetto della legge, è un diritto sacrosanto (ma Robespierre, suo paladino, ci credeva così tanto da decapitare tutti quelli che non tollerava). Rendere tutti uguali è solo fonte di cantonate bestiali. Solo nella morte siamo uguali, per il resto no.
Da una prima pagina del genere, il simpatizzante del partito e - in generale l'italiano - cosa è portato a pensare? Che l'Italia è una bestia perché fa tante storie ad accogliere gli immigrati. Il lettore, che sia di destra o di sinistra, sposta l'attenzione sull'Italia, anche se il fatto è avvenuto in Turchia e ha riguardato migranti ben diversi da quelli che sbarcano a frotte in Italia. Cosa c'è di diverso? Che quei 12 siriani fuggono dalla guerra. E che la Siria non è l'Africa. Mica tutti gli italiani lo sanno. Molti non sanno neanche dov'è Pesaro, figuriamoci la Siria. Per non parlare di Netanyahu, Assad e dell'infinita guerra israelo-palestinese.
Molti non sanno che l'Africa, per fortuna, non è tutta uguale, tutta misera, tutta in guerra. Come possiamo distinguere? Studiando la storia novecentesca dell'Africa, che la scuola - per mille ragioni - ignora pesantemente insieme alla storia di Israele. Aggiungiamo le pubblicità umanitarie, che chiedono soldi mostrandoci i bambini malnutriti (senza specificarci dove vivono), e la disinformazione è servita su un piatto d'argento. Insomma, cos'è che non va nell'articolo? La foto? No: la foto riflette la realtà e davanti alla realtà non c'è da fare gli gnorri, solo per sentirci a posto in coscienza. Semmai, quel che non va è l'uso che si fa di quella foto. La si ideologizza: si parte da un bambino morto tragicamente - bambino che proviene da un paese realmente disastrato dalla guerra e che avrebbe necessità di asilo politico - per arrivare a dedurre, come s'è visto sul web, che l'accoglienza sia l'unica vera strada per risolvere i problemi, che tutti (!) noi siamo peggio delle bestie e sulla stessa barca.
Il problema è come la foto è recepita nel contesto, non la foto in sé o le stupide deontologie giornalistiche che qualcuno pensa essere pesantemente violate. L'unico evento che viola per davvero, in questi casi, è la guerra. Quella vera. Tutto il resto è mancanza di distinzioni, strumentalizzazione e ignoranza.
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