martedì 5 gennaio 2016

UN INNO ALL'ANTI-FANATISMO: IL PONTE DELLE SPIE



di FRANCESCO GALLINA





Raffinato, elegante e scritto con grande maestria, Il ponte delle spie non è certamente il capolavoro di Spielberg, ma risulta comunque un'opera godibilissima ed istruttiva. Pecca chi lo accusa di patriottismo: Il ponte delle spie è tutto fuorché patriottico e nazionalistico. Non perché il protagonista è un americano il film deve necessariamente essere considerato un un retorico inno alla bravura americana, anzi, nel fotografare eccellentemente il tragico inizio della Guerra Fredda, il film ritrae il fanatismo politico trilateralmente: ad essere passato sotto il setaccio della critica storica non è solo l'URSS, ma anche la DDR e gli stessi USA. 
Ma procediamo con ordine.

Brooklin, 1957. Il ritrattista e paesaggista Rudolf Abel (interpretato da un apatico e bravissimo Marc Rylance) è arrestato con l'accusa di essere una spia sovietica. James B. Donovan (Tom Hanks), avvocato assicurazionista, è chiamato nel difficilissimo compito di garantire assistenza legale all'uomo, sebbene il tribunale di Stato americano non veda l'ora di sbatterlo sulla sedia elettrica. La protezione legale vuole essere solo una copertura ideologica per mostrare quanto gli USA siano un Paese civile e fondato su saldi principi costituzionali. Il processo dovrebbe essere il più breve possibile, ma Donovan, inaspettatamente, prende a cuore il caso e da semplice spalla legale, veste i panni di un accanito - ma pur sempre umano e pacato - difensore di Abel. Il rischio è altissimo e non mancano i primi tremendi attacchi all'incolumità dell'uomo, che si attira gli sguardi torvi degli americani anti-comunisti a tutti i costi. Pressato e messo in guardia dallo stesso Abel, anch'esso uomo riflessivo e di sangue freddo, l'avvocato resta sulle sue posizioni e annusa, assicurazionista qual è, un possibile incidente che potrebbe capovolgere la situazione. 
Il fiuto è infallibile: un aereo spia U2 è abbattuto dai sovietici e il giovane tenente Francis Gary Powers (Austin Stowell) è catturato con l'accusa di spionaggio. Negli stessi giorni un giovane Frederic Pryor (economista tuttora vivente, interpretato da Will Rogers) viene arrestato dalla Stasi per tentato passaggio del muro di Berlino, ancora fresco di malta. La CIA sfrutta Donovan perché da cittadino americano - e non in qualità di ambasciatore - liberi Powers in cambio di Abel. 

Quelli che più interessa non è la storia e il suo finale, ma la capacità che Donovan ha di trattare gli uomini come uomini e non pezzi di una scacchiera pronta a fare scacco da un momento all'altro. Donovan si scontra con la diffidenza americana, con il celodurismo della DDR, nascente Stato-fantoccio che si crede una potenza mondiale, e con le oscure trame di un Unione Sovietica invidiosa e a tratti ridicola. La Guerra Fredda non è un modo di dire: ad essere in gioco sono uomini intesi come feticci il cui unico imperativo categorico è suicidarsi al primo errore compromettente. Una guerra fatta di muri, ma anche di ponti, ragionate parole, strade meditate. Cioè quello che oggi manca: le parole ragionate, s'intende.

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