mercoledì 8 luglio 2015

BIRDMAN, OVVERO DELLA PORNOGRAFIA SOCIAL



di FRANCESCO GALLINA
 
 
C’è Altman, con i suoi epici racconti corali. C’è tutta l’abilità tecnica con cui Ziegler ha montato Nodo alla gola (1948) e con cui Sokurov ha diretto Arca russa (2002). Ci sono personaggi pirandelliani alla disperata ricerca di un senso da attribuire alla loro fragile esistenza, che sembra il labirintico giardino senza via d’uscita in Shining (1980).

Nella commedia nera Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza), c’è questo e molto altro: Iñárritu sa offrire al pubblico una struttura filmica a prova di bomba, retta su un impianto metateatrale e uno stile narrativo dinamico al punto giusto da rendere proteiformi quelle che, altrove, rischierebbero di scadere in tinche: il regista bramoso di riscatto (Michael Keaton) con una figlia dal passato torbido (Emma Stone) e un agente spregiudicato (un inedito Zach Galifianakis), le attrici  sull’orlo di una crisi di nervi (Naomi Watts e Andrea Riseborough), il primo attore prepotente (un Edward Norton straripante di energia). La trama rotola a suon di battute sferzanti, caricate nel loro significato dai rulli e i ticchettii di batteria di Sanchez, che fungono da incisivo commento musicale intra ed extra diegetico. Il direttore della fotografia Lubezki e i montatori Crise e Mirrione suturano le lunghe riprese senza soluzione di continuità, sfruttando passaggi attraverso il buio e immagini fisse: se ne ha l’illusione di un unico scorrevole piano-sequenza dotato di vita propria.

Il protagonista Riggan Thompson è il classico attore santificato da Hollywood che, raggiunto il culmine del successo con l’interpretazione del supereroe alato Birdman, si ritira dai riflettori, sprofondando nell’anonimato: come non leggervi in controluce la carriera dello stesso Keaton (ex Batman per Burton)? Con l’adattamento teatrale dell’opera di Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, Riggan è mosso dal desiderio di conquistare un nuovo pubblico che sappia ricoprirlo di applausi. Non gli interessa la verità effettuale della società, quella brulicante di spettatori coprofagi che si nutrono di convenzionali cinecomics (citati, peraltro, alcuni della Marvel), triti Blockbuster e facebookiani “mi piace, ormai unici marchi di approvazione da parte di un pubblico perlopiù ignorante e lobotomizzato dalla dimensione social. In Riggan, semmai, si fa ossessivo il desiderio di un’autenticazione della sua bravura da parte della critica ufficiale, grazie a cui potrebbe riprendere a volare sopra i cieli di New York come solo la vulcanica meteora di Birdman sapeva fare. È proprio l’atavica voce di Birdman ad esigerlo, tuonando assillante nel suo tormentato inconscio: una voce interiore, un imperativo categorico o, forse, la voce intrapsichica della società di massa che agisce in lui come una radicata e feroce spinta pulsionale, allo stesso tempo autodistruttiva e seducente. E così è l’essenza dello spettacolo portato ai limiti della pornografia, qui non tanto genere cinematografico, ma hegeliana categoria dello spirito.

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