di FRANCESCO GALLINA
C’è Altman, con i suoi epici racconti
corali. C’è tutta l’abilità tecnica con cui Ziegler ha montato Nodo alla gola (1948) e con cui Sokurov
ha diretto Arca russa (2002). Ci sono
personaggi pirandelliani alla disperata ricerca di un senso da attribuire alla
loro fragile esistenza, che sembra il labirintico giardino senza via d’uscita
in Shining (1980).
Nella commedia nera Birdman (o l’imprevedibile virtù
dell’ignoranza), c’è questo e molto altro: Iñárritu sa offrire al pubblico una
struttura filmica a prova di bomba, retta su un impianto metateatrale e uno stile
narrativo dinamico al punto giusto da rendere proteiformi quelle che, altrove, rischierebbero
di scadere in tinche: il regista bramoso di riscatto (Michael Keaton) con una
figlia dal passato torbido (Emma Stone) e un agente spregiudicato (un inedito Zach
Galifianakis), le attrici sull’orlo di
una crisi di nervi (Naomi Watts e Andrea Riseborough), il primo attore
prepotente (un Edward Norton straripante di energia). La trama rotola a suon di
battute sferzanti, caricate nel loro significato dai rulli e i ticchettii di
batteria di Sanchez, che fungono da incisivo commento musicale intra ed extra
diegetico. Il direttore della fotografia Lubezki e i montatori Crise e Mirrione
suturano le lunghe riprese senza soluzione di continuità, sfruttando passaggi
attraverso il buio e immagini fisse: se ne ha l’illusione di un unico scorrevole
piano-sequenza dotato di vita propria.
Il protagonista Riggan
Thompson è il classico attore santificato da Hollywood che, raggiunto il
culmine del successo con l’interpretazione del supereroe alato Birdman, si
ritira dai riflettori, sprofondando nell’anonimato: come non leggervi in
controluce la carriera dello stesso Keaton (ex Batman per Burton)? Con l’adattamento
teatrale dell’opera di Carver Di cosa
parliamo quando parliamo d’amore, Riggan è mosso dal desiderio di
conquistare un nuovo pubblico che sappia ricoprirlo di applausi. Non gli
interessa la verità effettuale della società, quella brulicante di spettatori
coprofagi che si nutrono di convenzionali cinecomics
(citati, peraltro, alcuni della Marvel), triti Blockbuster e facebookiani “mi
piace”, ormai unici marchi di
approvazione da parte di un pubblico perlopiù ignorante e lobotomizzato dalla dimensione
social. In Riggan, semmai, si fa
ossessivo il desiderio di un’autenticazione della sua bravura da parte della
critica ufficiale, grazie a cui potrebbe riprendere a volare sopra i cieli di
New York come solo la vulcanica meteora di Birdman sapeva fare. È proprio l’atavica
voce di Birdman ad esigerlo, tuonando assillante nel suo tormentato inconscio:
una voce interiore, un imperativo categorico o, forse, la voce intrapsichica
della società di massa che agisce in lui come una radicata e feroce spinta
pulsionale, allo stesso tempo autodistruttiva e seducente. E così è l’essenza
dello spettacolo portato ai limiti della pornografia, qui non tanto genere
cinematografico, ma hegeliana categoria dello spirito.
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