lunedì 30 novembre 2015

VA' PENSIERO: UNA DICHIARAZIONE DI SOTTOMISSIONE



di FRANCESCO GALLINA





L'ode scritta da Temistocle Solera per l'opera verdiana del 1842 è un testo di per sé dignitoso e musicato divinamente - anche se Rossini lo definì una "cavolata" - ma oggi strumentalizzato politicamente e ideologicamente.

Il Va' pensiero è ovunque. Come il prezzemolo, ce lo ritroviamo anche nel luogo dove avrebbe meno senso in assoluto: la commemorazione delle vittime della strage al Bataclan. Evidentemente, chi lo usa come inno patriottico si basa sul "sentito dire", non certo deve averne mai compreso il vero significato. E non ci vuole un genio della critica per farlo. 

Spieghiamoci meglio: da chi è rappresentato il coro? Da schiavi. E disperati, per lo più. Sono gli ebrei che patiscono e ardono nel loro cocente dolor. Perché? Perché sono ridotti in schiavitù nell'Egitto governato da Nabucodonosor. Non per altro il coro si trova nel terzo atto del Nabucco. Verdi propone il tema della diaspora, e così lo farà in molte altre sue opere, dall'Ernani al Macbeth, dall'Alzira ai I vespri siciliani. Il pensiero è la memoria del suolo natio, il “suolo natal” di cui l’esule ricorda con nostalgia i “clivi” e i “colli”, le rive del Giordano, le torri di “Sionne”. Si tratta di una visione, un'apparizione sognante delle proprie terre perdute, che viene riflessa nella dimensione di un possibile ritorno. La condizione dell'apolide è descritta alla perfezione: l'esule trae conforto dal ricordo, ma è un'arma a doppio taglio, perché prova allo stesso tempo l'atroce dolore per la distanza fisica e geografica. Si tratta, insomma, di un pianto lacrimevole proclamato con ritmo sincopato e concluso in sordina. 

Bene. Se io decido di usare questo inno nel giorno in cui si ricordano le vittime di terroristi islamici, cosa ne posso dedurre? Che la Francia non è più libera e che è schiava dei terroristi islamici, che non è più patria e che piange un passato che, forse, non ritornerà più. Quindi siamo di fronte ad una dichiarazione di sottomissione. Perfetto. Aggiungiamoci che Islam significa sottomissione è il gioco è fatto. All'occhio del contemporaneo, il Va' pensiero, può essere letto anche in modo molto più letterale, eppur comunque veritiero. Se intendiamo il pensiero freudianamente (e non come vaga memoria), il pensiero che se ne va è proprio quello dello schiavo che è costretto ad abbandonare il proprio pensiero per adeguarsi a quello del conquistatore. D'altronde, la Francia, conosce bene il terrorismo e parte del suo pensiero migliore lo ha visto cadere sotto la ghigliottina di uno dei terroristi più radicali, eppur osannati: Robespierre.

Cosa dedurne? Che chi usa il Va' pensiero come simbolo di libertà manifesta invece la propria sottomissione, il proprio stato di derelitto, ostentando la propria fragilità nei confronti di chi vuole farne uno schiavo. Quando le ragioni di un unico Dio padrone vogliono imporsi sul singolo individuo (elemento caratteristico dell'Islam), la prima cosa che se ne va è proprio l'unico elemento che distingue l'uomo dalle bestie: il pensiero.

sabato 28 novembre 2015

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: PIER PAOLO PASOLINI




di FRANCESCO GALLINA



Di Pasolini è stato detto di tutto. Chi lo dipinge come un santo laico, chi come un ignobile pederasta. 

Noi non diciamo niente. 
Per la consueta rubrica poetica del sabato di #busillisblog, ci limitiamo ad offrire quella che secondo noi è una delle sue più belle poesie pasoliniane, tratta da La religione del mio tempo, Garzanti, Milano (1961), e accompagnata da un dipinto di Antonio Berni. Sono endecasillabi crudi, sporchi, franti, imperfetti, come il sottoproletariato romano. Come Pasolini.



Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano

di PIER PAOLO PASOLINI
 

Antonio Berni, Manifestaciòn (1934)


Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c'è come l'aria d'un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
che trapela il suo umido, rosso,
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n'hanno, usano lusinghe
abbiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce
piene.
Se lavorano - lavoro di mafiosi
macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani - avviene
che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene...
 
Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un'anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati...
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l'angosciosa scommessa,
a dirsi: "È fatta," con un ghigno di re...
La nostra speranza è ugualmente
ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla 
storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.

sabato 21 novembre 2015

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: BERTOLD BRECHT



di FRANCESCO GALLINA



Bertolt Brecht


General, dein Tank ist ein starker Wagen (1939)



Gianfranco Moroldo – Vietnam: la crisi di pianto di un soldato sorpreso 
di essere ancora vivo dopo un feroce combattimento sulle colline (1967); 
copertina di L’Europeo, dell’11 gennaio 1968.




Generale, il tuo carro armato è una macchina potente

Spiana un bosco e sfracella cento uomini.

ma ha un difetto:

ha bisogno di un carrista.



Generale, il tuo bombardiere è potente.

Vola più rapido d’una tempesta e porta più di un elefante.

Ma ha un difetto:

ha bisogno di un meccanico.



Generale, l’uomo fa di tutto.

Può volare e può uccidere.

Ma ha un difetto:

può pensare.

mercoledì 18 novembre 2015

LA GUERRA OGGI, TRA FETICISMO E ASSENZA DEL PARADOSSO



di FRANCESCO GALLINA




Teste di Armeni decapitati dai Turchi.

"I cattivi arrivano e dobbiamo lasciare la nostra casa" e il padre risponde "La nostra casa è la Francia". Al di là del fatto che in Italia una scena di questo genere non avremmo mai avuto il piacere di vederla, colpisce come il bambino abbia centrato la questione: ci sono dei cattivi e c'è una casa in pericolo da cui si è barbaramente cacciati. Cosa c'entrano loro? Niente. Sono pezzi di un puzzle da eliminare perché il puzzle prenda forma. E il puzzle si chiama ISIS, ma ieri si chiamava nazismo o stalinismo. 

Mi piacerebbe che molti avessero la lucidità di quel bambino. Capire che i cattivi non sono paradossali, ma sono cattivi. Punto e basta. Cosa voglio dire? Che quanto accaduto (e quanto accadrà) non è frutto di menti psicopatiche, anzi, sono menti più lucide di quella del bambino stesso. I kamikaze sanno benissimo quello incontro cui vanno e ne sono orgogliosi, entusiasti. Si chiama jihad, ma anche più semplicemente guerra. I termini non coincidono, ma si lambiscono. La prima è uno slancio di perfezione e di pulizia etnica globale a favore di un ideale, la seconda può essere semplicemente uno scontro. Sarebbe stato semplice fino alla Prima Guerra Mondiale: due battaglioni si scontravano in un campo di aperta campagna e "tutto" finiva lì. Con la Grande Guerra l'ideale cortese dello scontro corpo a corpo scompare, il conflitto si fa logoramento psicologico prima ancora che fisico e le granate non vedono più in faccia chi colpiscono. La stessa cosa avviene nei campi di sterminio: gli ebrei vengono ammassati nelle camere a gas e il gas è azionato una volta sigillate i portelloni a tenuta stagna. Non c'è un soldato tedesco che ficchi una spada nel cuore di un ebreo, così come non ci sono grate che mostrino gli ebrei asfissiare nudi fra convulsioni, fuoriuscita di sangue dagli orifizi e attacchi improvvisi di diarrea. La visione sarebbe atroce: nemmeno un soldato addestrato dal Reich sarebbe stato in grado di reggere alla visione. Prima e Seconda Guerra Mondiale abbattono la vicinanza: il Medioevo, in questo, era estremamente più civile. Il collo che sgozzavi, lo sentivi sprizzare sangue mentre recidevi vene e muscoli. 

Non si lanciano più bombe a mano, ma si lanciano missili a distanza. Si sono espanse le distanze. Oppure ci si immerge nella folla e ci si fa saltare in aria, senza guardare in faccia chi si uccide. L'uno vale l'altro. Sono promesse vergini bellissime nell'aldilà. E allora, presi dall'ideale elevato, celestiale, non si dà alcun valore a quel che passa sott'occhio nel mondo del reale. Che ti passi davanti un bimbo, una donna incinta o una studentessa nel fiore dell'età, non ha più nessuna importanza. Ci riduciamo a numeri in funzione di ideali, feticci, cose, carne da macello. 
Ma dire che è un paradosso è dire una scemenza: è la guerra così come il Novecento ce l'ha fatta conoscere. Idealismo, nazionalizzazione delle masse, eroismo, sacrificio, massificazione della morte. Un morto non basta, è troppo poco ed è poco efficace. 
Dopotutto, leggere Mazzini e leggere il Corano non fa molta differenza: c'è sempre un Dio e ci sono sempre infedeli da vituperare (ma che abbia mai letto di Gesù Cristo estrarre una spada o invitare alle armi) in vista di un ideale. E come si chiama questo ideale? Italia Unita. 

Ecco la ragione per cui, in Italia, non avremmo mai potuto godere di quel bambino e di quel padre. Perché? Semplice. L'Italia, a distanza di 150 anni dalla sua nascita, non è una nazione, un popolo legato da un collante identitario forte come lo è da secoli la Francia, ma è il frutto di dementi (da de-mens: che non pensano) che pensavano di fare uno Stato da un giorno all'altro. Uno Stato fantoccio che, al momento di decidere se restare in guerra o no, pusillanime qual è, non ha mai deciso. Uno Stato, appunto, non certamente una nazione. L'Italia non è mai stata la casa di nessuno. Perché l'Italia non è mai esistita. 

sabato 14 novembre 2015

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: NAZIM HIKMET


In memoria delle vittime
dell'attentato di Parigi

14/11/2015


PRIMA CHE BRUCI PARIGI (Parigi, 1958)

di NAZIM HIKMET





Finché ancora tempo, mio amore
e prima che bruci Parigi
finché ancora tempo, mio amore
finché il mio cuore è sul suo ramo
vorrei una notte di maggio
una di queste notti
sul lungosenna Voltaire
baciarti sulla bocca
e andando poi a Notre-Dame
contempleremmo il suo rosone
e a un tratto serrandoti a me
di gioia paura stupore
piangeresti silenziosamente
e le stelle piangerebbero
mischiate alla pioggia fine.

Finché ancora tempo, mio amore
e prima che bruci Parigi
finché ancora tempo, mio amore
finché il mio cuore è sul suo ramo
in questa notte di maggio sul lungosenna
sotto i salici, mia rosa, con te
sotto i salici piangenti molli di pioggia
ti direi due parole le più ripetute a Parigi
le più ripetute, le più sincere
scoppierei di felicità
fischietterei una canzone
e crederemmo negli uomini.

In alto, le case di pietra
senza incavi né gobbe
appiccicate
coi loro muri al chiar di luna
e le loro finestre diritte che dormono in piedi
e sulla riva di fronte il Louvre
illuminato dai proiettori
illuminato da noi due
il nostro splendido palazzo
di cristallo.

Finché ancora tempo, mio amore
e prima che bruci Parigi
finché ancora tempo, mio amore
finché il mio cuore è sul suo ramo
in questa notte di maggio, lungo la Senna, nei depositi
ci siederemmo sui barili rossi
di fronte al fiume scuro nella notte
per salutare la chiatta dalla cabina gialla che passa
- verso il Belgio o verso l'Olanda? -
davanti alla cabina una donna
con un grembiule bianco
sorride dolcemente.

Finché ancora tempo, mio amore
e prima che bruci Parigi
finché ancora tempo, mio amore.

venerdì 13 novembre 2015

FIRENZE NASCOSTA: L'ANTICA FARMACIA DI S. M. NOVELLA




di FRANCESCO GALLINA

Le foto sono di Francesco Gallina



Soffitto affrescato e in bassorilievo della Sala Vendita


Il mio romanzo De Perfectione arriva secondo classificato al Premio Internazionale La Pergola: la cerimonia di premiazione si tiene nel auditorium dell'Ente Cassa di Risparmio, arricchito da un notevole organo. Musica e banca: binomio interessante. 


Scendo nel capoluogo toscano dopo molto tempo, e mi si palesa il dilemma del turista ripetente: dopo aver setacciato quasi tutta la città gli anni precedenti, cosa potrà mai restarmi da vedere? Al sublime del Duomo ci ho fatto il callo, conosco a menadito le splendide sale di Palazzo Vecchio, i principali musei li ho già assimilati, San Miniato visitata più volte. Conosco persino le strade centrali del shopping, quelle più belle e quelle più trash. 
E allora giro a zonzo per le stradine più "periferiche", anche se Firenze Santa Maria Novella è tutto centro, anche i vicoletti più sperduti, eppur frequentati dal popolo mangereccio in pellegrinaggio nella taverna che non t'aspetti.


Antica Spezieria 



Ma veniamo al dunque. Scopro l'Officina Profumo-Farmaceutica di Santa Maria Novella. E sono un uomo felice. Vicina alla stazione e retrostante alla Basilica omonima, è in una via dalla composizione eterogenea, fra hotel, locande, palazzi ristrutturati e un pullulare di minimarket afro.
Un'anonimo portone di Via della Scala, al civico 16, è affiancato da una deliziosa vetrinetta. A me, le cose di antica erboristeria, mi hanno sempre attratto, benché non le abbia mai acquistate: giocano in me un'insanabile tirchiaggine e il sospetto che i prodotti erboristici, inquinati fino all'osso come siamo, non funzionino più.








Sta di fatto che entro, e mi si spalancano interni spettacolari. Ci sono turisti pagani e poveri come me, che si intrufolano solo per scattare qualche foto, e poi c'è il pubblico acquirente. I prodotti sembrano perle preziose che solo un pubblico elitario può apprezzare. Passare dal Gatorade venduto a un euro dal marocchino all'Eburneina liquida fa un certo effetto. Resti spiazzato da tanta raffinatezza: hai la sensazione che tutte quelle essenze, tutto quel proliferare di essenze profumate, saponi e liquori, pretendano un pubblico selezionato, che se ne intende, che vuole godere di una tradizione secolare fatta di sapienza e studio monacali. Si passa dalle antiche preparazioni come l'Aceto Aromatico dei Sette Ladri ai distillati come l'Elisir di Edimburgo, dalle acque di colonia (una quarantina) agli estratti tripli ed essenze 

assolute per fazzoletto, dalle lozioni dopobarba contro il fuoco del rasoio ai prodotti per l'igiene e la cura del corpo riducenti, rilassanti, astringenti e rinfrescanti, dagli aceti cosmetici ai saponi, dalle creme pedestri ai detergenti intimi fino agli accessori in ceramica e in silver plate per accogliere candele e po-pourri lasciato macerare in orci di terracotta dell'Impruneta. Insomma: siamo nell'impero della cosmesi dell'Italia Centrale. Ma c'è anche una vasta scelta di integratori alimentari, erbe per infusi, tisane, cioccolatini, spezie e confetti. 
Basta: voglio comprarmi qualcosa, ma il portafogli reclama vendetta, sarà per effetto della miscela mediterranea agrumata, si astringe.



Sala Verde 



Allo studente di Lettere e Arti - cioè il sottoscritto -, però, interessano di più le Sale. arricchita da dipinti, affreschi, lampadari, scrigni ed effigi di personaggi illustri, la Sala Verde funge da sala di ricevimento e, fin dal secolo XVIII, è frequentata da palati fini che degustano cioccolata, alkermes e china. Oggi è la Tisaneria il luogo dove assaggiare le delizie dell'Officina: accanto, nell'Angolo dei fiori, sono esposti antichi strumenti di laboratorio, alambicchi e antiche ceramiche, nonché calici di vetro contenenti fiori e lucida e profumata frutta essiccata, incisa o tagliata a fette. Adiacenti alla Sala Verde sono l'ex cappella adibita a Sala Vendita e la straordinaria Antica Spezieria, dove antica mobilia in legno pregiato contiene antiche boccette e scatoline. La vera chicca, però, è la piccola e graziosissima Sacrestia - ex Stanza della Acque dove si producevano gli estratti e i distillati - completamente affrescata e con una volta opera di Mariotto di Nardo, che è stata riportata agli antichi fasti. 

Quindi, cari turisti ripetenti, la morale è che Firenze nasconde sempre qualche gioiello: basta lasciarsi inghiottire dai luoghi meno ortodossi, lontano da ogni guida ufficiale. Credevate che il David di Michelangelo fosse tutto, ma vi eravate sbagliati.

E, ora, se permettete, vado a sciacquarmi con l'Eburneina liquida che, dimenticavo di dirvi, è un colluttorio rosso brillante che pulisce i denti e deodora l'alito. Colluttorio a base alcolica. Perché la classe non è acqua.



La Sacrestia 

mercoledì 11 novembre 2015

SPECTRE, BOND E IL BRINDISI ALLA LIBERTÀ DI SCELTA





di FRANCESCO GALLINA





L'ultima volta che sono stato in Campidoglio era a fine marzo, per ritirare un importante primo premio letterario, l'AlberoAndronico. Le scene romane di Spectre erano state finite di girare pochissimi giorni prima, e si vedevano ancora attaccati ai pali quel che restava delle strisce pedonali di divieto poste dalla troupe in prossimità del Colosseo. La bufera sulla capitale d'Italia aveva già proiettato le sue ombre, come tante sono quelle che popolano l'ultimo 007 diretto da Mendes. Con altissime probabilità, l'ultimo interpretato dal migliore - a nostro avviso - dei James Bond. Ombre polipesche, i cui tentacoli si diramano come solo un sistema mafioso sa fare. E ci vuole fiuto per ambientare in un palazzo romano (in realtà il lussuosissimo Grand Hotel Ciudad de Mexico) la reunion dei massimi esponenti dell'associazione criminale SPECTRE, una piovra di farabutti in giacca e cravatta che decide le sorti del mondo. Era dall' '83 che mancava dallo schermo di un film bondiano. Fosse stato diretto da un italiano, la critica se ne sarebbe uscita con metafora del Parlamento italiano e invece, per fortuna l'ha diretto il regista di American Beauty, che si può onestamente annoverare fra i migliori registi contemporanei di film d'azione - e sono davvero pochi. Sapienti movimenti di camera,  uso insistito dell'elicottero e del drone per panoramiche mozzafiato e, ultimo ma non ultimo, uno spettacolare piano sequenza nei dieci minuti d'apertura del film, che solo una mano esperta può costruire: sindrome di Birdman?




Il film non è di certo il migliore della saga, ma noi di #busillisblog non vogliamo fare come il 99% della critica, che lo considera paragonandolo a un miracolo cinematografico come è stato Skyfall. Inutile operare sulla base di comparazioni. Consideriamolo una buona volta come una monade a sé stante (benché si accumulino i riferimenti e le citazioni ai tre film precedenti). Ci troviamo davanti a un ottimo prodotto che, oltre alla regia, vede lavorare un eccellente scenografo come Dennis Gassner (premio Oscar per Bugsy, ma ricordiamo anche The Truman Show e Big Fish), un bravo fotografo dalle tinte calde e suadenti come Van Hoytema (che abbiamo incontrato di recente in Interstellar) e, soprattutto, un maestro come Thomas Newmann alla direzione dell'orchestra. 





L'opening scene, la più costosa e complessa di tutta la serie, è orgasmo visivo allo stato puro, immergendoci fra le funamboliche piroette di elicottero girate dal vivo - e non frutto di effetti speciali -, in cui si distingue un attore italiano dai più ignorato, Alessandro Cremona, che qui dà il meglio di sé, sfruttando poco l'ausilio dello stuntman e rivelandosi un abile atleta. Una scena che non può non alludere a quella di For Your Eyes Only dell' '81. Al secondo posto collochiamo l'inseguimento nella città eterna, fra Nomentana, via della Conciliazione, via Vittorio Veneto, Vaticano e Ponte Sisto: insomma, una pubblicità turistica migliore di quella che Roma, inghiottita dal suo politicante blaterare, non è al momento in grado di fare. Avrebbero potuto insistere ancora di più sulla corsa, così come avrebbero potuto dare maggior risalto alla capitale. Ma con i condizionali non si va molto lontano. 




La sceneggiatura è di buon livello, anche se avremmo voluto una maggiore caratterizzazione e profondità del personaggio interpretato dalla giovane promessa Andrew Scott (Max). Veramente azzeccati, invece, i ruoli attribuiti allo spigliato Ben Whishaw (Q), all'erculeo e cagnesco wrestler Dave Bautista (Hinx, che viene introdotto in una scena che è evidente citazione dellos contro fra Oberyn Martell e Clegane in Game of Thrones), alla tenace e "cazzuta" bond girl di Lea Seydoux, Madeleine Swann, e, neanche a dirlo, l'adorevole  psicopatico Blofeld, recitato da Christoph Waltz (benché vi sia il rischio che l'attore premio Oscar per Django e Bastardi senza gloria, a lungo andare, si trasformi nella macchietta del megalomane sempre identica a sé stessa). Totalmente fuori luogo, invece, la Bellucci che, grazie a Dio - o agli sceneggiatori Logan e Purvis-, resta sulle scene cinque minuti, e sono i cinque minuti più noiosi e inutili di tutto il film: vien quasi da pensare che la Bellucci abbia sborsato denaro per entrare a tutti i costi in un film che non la riguarda. Ancora una volta, la Monicona nazionale si rivela il grande cinematografico mistero della fede: dizione pastosa, voce comica (ma perché la fanno doppiare?) e porno-impaludata. Va bene tutto, ma pronunciare James Bond Ceims Pond è un delitto inammissibile. La Tea Falco di Tornatore torna sugli schermi in qualità di vedova: lei piange per la morte del marito, noi per quella della buona dizione. 

Stendendo un velo mortuario, ci sentiamo comunque di consigliare il film, che chiude il ciclo-Craig, giocando su rimandi e riferimenti del passato, fra cui una rivisitazione parodica del Martini e escamotages narrativi per fare il punto della situazione, già a partire dalla sigla iniziale firmata da Sam Smith (anche in questo caso, non la migliore degli ultimi quattro, se paragonata a Casinò Royale o Skyfall). Intensa e filosoficamente pregnante la scena centrale sul treno del Marocco, teatro di un aspro combattimento (possibile citazione di Sherlock Holmes-Gioco di ombre?) in cui Bond sostiene di non avere mai avuto nella sua vita possibilità di scelta. Madeleine lo contrasta. James si lascia convincere e brinda alla libero arbitrio, ciò che più di tutto riscatta l'uomo dalla sua presunta animalità. Un brindisi a cui prendiamo parte, con grande gioia, insieme a Craig, che dovremo abituarci a vedere in altri panni. 


mercoledì 4 novembre 2015

ANGELI DEL FANGO: GENEALOGIA DI UN'ESPRESSIONE



di FRANCESCO GALLINA

Foto di Francesco Gallina






Fu il giornalista del "Corriere della Sera" Giovanni Grazzini che coniò l'espressione angeli del fango, a seguito della spaventosa alluvione che travolse Firenze il 4 novembre del 1966. Ancora oggi, nel capoluogo fiorentino, si leggono, in punti perlopiù nascosti, piccole lapidi rettangolari, incastonate nell'intonaco dei palazzi, che segnano come stimmate fin dove arrivò l'acqua dell'Arno. Sembra di restare soffocati al solo pensiero.

Angeli del fango è etichetta di grandissimo impatto, soprattutto in anni dove per le strade iniziano ad aggirarsi capelloni con pantaloni a zampa d'elefante, sedicenti rivoluzionari spesso solo fatti di droghe pesanti o di pesanti utopie. Altri, invece, seguono solo la moda, e solo per questo vengono tacciati di nullafacenza dalla critica benpensante. E l'articolo di Grazzini sottolinea proprio questa pregiudiziale diffidenza, veicolando un'apologia del giovane e ingiustamente bistrattato beat: "Onore ai beats, onore agli angeli del fango!", scrive. Il messaggio è forte e chiaro: piantiamola lì di giudicare dalle apparenze. Lo stupore si respira nell'aria marrone che imbratta le strade lerce di Firenze. Sgrana gli occhi il vecchio conservatore che, fino al giorno prima, sputava sulla gioventù rovinata e che, adesso, si vede spazzare la cantina da quello che il giorno prima  non avrebbe esitato a chiamare "perverso", o anche semplicemente "poco normale". Che poi, non avrebbe nemmeno avuto torto, prendendo a modello le parole di Keruac: "l'hipster caldo è il folle dagli occhi scintillanti, innocente e dal cuore aperto, chiacchierone, che corre da un bar all'altro, da una casa all'altra, alla ricerca di tutti, gridando irrequieto." La generazione degli sconfitti, dei perduti e dei perdenti, è - per antonomasia - anche questo. Soprattutto questo.

Se però da un punto di vista retorico e giornalistico la metafora è eccellente, da quello filosofico risulta un po' troppo kitsch. Perché gli angeli sono esseri divini, e le divinità - proprio perché trascendentali - non si fanno passare per la testa di imbrattarsi mani e piedi di fango. Dare degli angeli agli uomini non è, dopotutto, un gran complimento: si rende provvidenziale, infatti, una mirabile decisione che non proviene dalle alte sfere, ma dal più nobile libero arbitrio del singolo. La differenza fra gli angeli e gli uomini è che gli angeli, qualora avessero voluto, avrebbero rimesso in sesto la città con un colpo di bacchetta: si sarebbero ben guardati dal piegarsi in due, curvando la schiena fradicia di sudore immergendo braccia e polpacci nel tessuto umido e colloso del gelido fango. E, non dimentichiamoci, gratuitamente. Un semplice trionfale atto di volontariato. Della serie: nessuno saprà della mia identità, ma è anche grazie a me se la res publica riprenderà il suo ciclo vitale.

Allora, forse, angeli del fango non rende la giusta dignità a coloro che, dal '66 ai giorni nostri, si sono alzati dal letto, hanno indossato stivali e guanti e si sono messi lì, per ore e ore, a spalare quanto di più infido Madre (?) Natura riversa sull'uomo e sui prodotti dell'uomo, in primis le opere d'arte. 

Per alcuni, beat significa anche beato, mistico, asceta. Ma la storia insegna che i migliori asceti se ne stavano a gambe incrociate sugli alberi o sulle colonne, a contemplare il nulla. Non sappiamo se fra quei giovani ci furono i futuri scapigliati sessantottini, ma possiamo dire che i veri beat, i vinti - in quei freddi giorni di novembre - non furono di certo loro. 


lunedì 2 novembre 2015

FRA CREPE E ASFALTO: VERA BONACCINI



di FRANCESCO GALLINA




#busillisblog inaugura la nuova settimana con un'intervista a Vera Bonaccini, collaboratrice della fresca Matisklo Edizioni e dell'originale rivista Bibbia d'asfalto, nonché voce di rottura nel panorama della buona letteratura italiana contemporanea (che non è tanta). Nessun clima bucolico o romantica glicemia poetica, ma un uso crudo e tagliente della parola, che sa farsi strada nell'asfalto della metropoli e della periferia. Quando la parola sa essere aderente alla monotona e routinaria realtà quotidiana, creando crepe, inediti punti di vista.







Siamo lieti di ospitare sul nostro blog la scrittrice Vera Bonaccini. E allora, benvenuta su #busillisblog, Vera! 

Con un certo adorabile velenoso sarcasmo li chiami PDF, gli infidi poetastri di Facebook. Dacci il tuo punto di vista sullo stato e sullo statuto di certa squallida poesia italiana contemporanea. Quali sono gli errori e gli orrori che l’industria poetica, oggigiorno, commette?

Beh, per prima cosa, dell'illeggibile anticostituzionale orribile poesia. Girovagando per la rete si trovano obbrobri tali (anche dal punto di vista grammaticale) che, leggendoli, viene istintivo cavarsi gli occhi con un cucchiaino da caffè. Il mio gatto, rotolandosi sulla tastiera, scrive cose decisamente migliori.
La democratizzazione dell'arte, se è una cosa estremamente positiva dal punto di vista della fruizione della stessa, in quanto essa smette di essere appannaggio di una classe elitaria e tutti possono goderne liberamente, diviene però un'arma a doppio taglio per quanto riguarda invece l'aspetto della creazione artistica: possedere una connessione a internet non fa automaticamente di una persona un poeta (come non ne fa un medico o un esperto di scienze politiche, se ci riferiamo ad altri campi). Oltre al talento, che è imprescindibile, sono fondamentali anche la voglia di studiare e di migliorarsi; conosco 'poeti' che dichiarano orgogliosamente di non leggere poesia e, difatti, scrivono cose che, difficilmente, possono essere definite poesie.
Il problema di fondo di questo proliferare di 'poeti' è, secondo me, l'esistenza dell'editoria a pagamento, quella che nei paesi anglosassoni si chiama vanity press; se chiunque, pagando, può pubblicare un libro di poesia, allora chiunque, pagando, può assurgere al ruolo di poeta. È un discorso ampio, difficile da affrontare in poco spazio. Per riassumere, citando “Forma e Sostanza” dei CSI, “Comodo ma come dire poca soddisfazione...”


Sei redattrice di "Bibbia d’Asfalto", rivista che si definisce di poesia urbana e autostradale. Ti chiedo, allora: quali sono le potenzialità della parola poetica nell’alienante, routinario e opprimente mondo dell’asfalto e del cemento armato?

Io credo che oggi la poesia debba nascere dalla strada; volenti o nolenti, viviamo in un mondo fatto di cemento. La poesia, la poesia vera intendo, ha lo scopo di raccontare la realtà. Ha senso scrivere poesia bucolica quando si vive in periferia tra le case popolari o si trascorrono otto ore in un call center? Secondo me quella che, apparentemente, si presenta come una contraddizione, ovvero il rapporto tra poesia e ambiente urbano, scavando più in profondità, si mostra, invece, come un rapporto di tipo necessario. L'alienazione e il disagio provocati dal vivere in un ambiente  artificiale con ritmi altamente frenetici, come quello cittadino, spingono a ricercare la bellezza, in una sorta di autodifesa mentale, e la poesia si presta bene, come linguaggio, a raccontare questo contesto, proprio perché ha delle caratteristiche peculiari adeguate. Quello poetico è un tipo di linguaggio estremamente moderno; è rapido, visivo, addirittura musicale per certi versi. Perfetto per raccontare questo tempo così feroce.
D'altronde, negli ultimi anni, si è finalmente assistito a un vero e proprio cambiamento nel mondo poetico, che è passato dal muoversi in ambienti chiusi su se stessi (circoli letterari, associazioni culturali, ecc) ad ambienti aperti a tutti; penso ai reading  poetici nelle piazze e nei locali, ai poetry slam, fino ad arrivare alla poesia di strada vera e propria ad opera di artisti come Opiemme, Ma Rea, Ivan, o al M.E.P. (Movimento per l'Emancipazione della Poesia).
Finalmente la poesia riprende il suo spazio per le strade, tra la gente. È un momento bellissimo!


Parlaci della tua poetica. Perché fare poesia? E, soprattutto, che cos’è fare poesia? Prodotto divino o umano lavoro di bulino?

Perché fare poesia? Bella domanda... per me scrivere è un'esigenza, un bisogno vero e proprio; diciamo che la poesia è il mio modo di filtrare il mondo, di comprenderlo e di rielaborarlo, per potere poi andare oltre. Il poeta secondo me deve essere una sorta di cartina di tornasole del reale. Spesso mi è stato detto che la mia poetica è troppo aggressiva o troppo cinica; sarà. A mio parere l'arte può definirsi tale se provoca nel fruitore un moto di ribellione, la convulsione di cui parlava Breton, il 'bello' non basta, è necessaria la provocazione, l'arte deve provocare un'azione. Non mi interessa scrivere per sentirmi dire quanto è bello ciò che ho scritto, mi interessa che il lettore tragga spunto da una mia riflessione per crearsene una propria.  Ci sono 'poeti' che trascorrono il tempo a scrivere poesie sulle farfalle mentre a pochi chilometri da qui scoppiano le guerre e la gente muore... io non li definirei poeti, per quanto mi riguarda è 'gente che scrive in verticale'; i poeti veri sono ben altro.
Per quanto riguarda il lato tecnico dello scrivere poesia, direi che è al 90% ispirazione e al 10% lavoro di cesello. Non revisiono eccessivamente quello che scrivo, ad essere onesta. Ovviamente posso farlo perché scrivo in forma libera, scrivessi haiku o sonetti, il discorso, chiaramente, sarebbe diverso.


Quali sono – se ci sono – i tuoi punti di riferimento nell’arte e nella letteratura passata e contemporanea? In un contesto di forte rottura nel quale ti collochi, qual è – e soprattutto – sussiste un rapporto con la tradizione? Di che tipo?

Per quanto riguarda la poesia apprezzo moltissimo Izet Sarajlić, poeta bosniaco, membro del “Circolo 99” di Sarajevo, che è stato un vero e proprio simbolo di resistenza culturale durante l'assedio della capitale multietnica negli anni Novanta. Altro autore che mi piace molto a livello poetico è Raymond Carver, nonostante sia conosciuto ed apprezzato principalmente per i suoi racconti.  Una poetessa fantastica e troppo poco conosciuta è Jana Černá. Poi i poeti della Beat Generation: Ginsberg, Kaufman, Corso, Ferlinghetti, Orlovsky. I surrealisti: Breton, Eluard, Artaud, Char, Bataille, Queneau. In Italia, Antonia Pozzi, Amelia Rosselli, Edoardo Sanguineti, Dino Campana, Camillo Sbarbaro, Eugenio Montale... mi fermo qui perché andrei avanti per ore.
Credo che ci possa essere una vera e propria rottura (sia dal punto di vista degli argomenti trattati, sia dal punto di vista dello stile) solo se si conosce bene la tradizione, altrimenti più che di rottura, parliamo di posa. Conoscere quello che c'è stato prima è fondamentale per definire una propria identità, sia in un senso di continuità, sia in un senso di distacco. D'altronde, se ci troviamo dove ci troviamo, è perché qualcun altro in un precedente momento ha fatto, o non ha fatto, determinate scelte. Come si può prescindere da questo?




Per Matisklo curi “Vertigini”: quali sono le caratteristiche peculiari dei testi che compongono questa collana?

La collana che curo per Matisklo, Vertigini, si occupa di narrativa contemporanea. Al suo interno si trovano libri molto diversi per quanto riguarda il genere trattato; tanto per dare un'idea, cito due titoli che rappresentano forse gli antipodi in questo senso: Scusa, Ameri – i diari del calcetto di Alberto Calandriello che è testimonianza di una passione, quella per il Calcio (giocato, pur non avendo chissà quali capacità) e, allo stesso tempo, parodia dello stesso, dei discorsi, delle situazioni che si creano attorno ad un gruppo di amici che - da anni - si ritrovano settimanalmente per giocare a calcetto, e Diario di una fatina tossica di Jelena H. che racconta, come si evince dal titolo, la storia vera di una dipendenza dall'eroina.
Quello che unisce questi libri e gli altri pubblicati in Vertigini è l'originalità con cui determinati argomenti vengono trattati; quando seleziono i manoscritti per la pubblicazione cerco sempre di non cadere nel banale. Prediligo un libro interessante a un libro magari più facilmente vendibile, ma banale. Mi piace pubblicare buoni libri. Penso ai lettori. È un discorso che viene fatto anche nelle altre collane di Matisklo Edizioni; puntiamo a essere contrabbandieri di parole, prima che venditori di libri.


Vogliamo saperne di più su due tuoi lavori dai titoli particolarmente attraenti: Cartoline da un paese in dismissione e Biologica al 97% - poesie lomografiche.

Biologica al 97% - poesie lomografiche risale al 2012, è un libro che ho autopubblicato, un vero esperimento di DIY in puro stile punk (ho disegnato io anche la copertina). Il riferimento alla lomografia nel titolo è dovuto al fatto che le poesie che lo compongono sono state scritte d'istinto, con un lavoro di revisione pressoché nullo, se non del tutto inesistente. Mi piaceva l'idea di una serie di istantanee non scattate ma scritte, buttate a caso, senza pensarci troppo. Come ho scritto nell'introduzione: “Le 10 regole della fotografia lomografica recitano: "Porta la tua lomo ovunque tu vada. Usala sempre di giorno o di notte. La lomografia non è un'interferenza nella tua vita, ma ne è parte integrante. Scatta senza guardare nel mirino. Avvicinati più che puoi. Non pensare. Sii veloce. Non preoccuparti in anticipo di quello che verrà impresso. Non preoccuparti neppure dopo. Non ti preoccupare di queste regole. Questa la fotografia lomografica. Ora ditemi, non vi ricorda la poesia?"
Cartoline da un paese in dismissione è uscito nel 2013 per le Edizioni La Gru di Padova, con cui avevo già pubblicato alcuni testi in due antologie, un racconto in Nagasaki Luna Park (insieme a Nucleo Negazioni) e una poesia nell'antologia Guadagnare soldi dal Caos. È un libro molto arrabbiato, in cui racconto un'Italia allo sfascio, priva di qualsiasi punto di riferimento, sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista culturale. È un libro profondamente nichilista, l'inizio di un percorso che è poi sfociato nel mio ultimo libro, Little Town Blues.


E allora ti salutiamo chiedendoti di darci qualche dritta su Little Town Blues, la tua ultima raccolta di poesie fra periferia ed emarginazione poetica.

Little Town Blues è uscito l'anno scorso per Matisklo Edizioni. Little Town Blues è un'espressione derivata dalla canzone New York New York di Frank Sinatra e si usa per indicare la depressione derivante dal vivere in un piccolo paese.  L'ho scelta come titolo non solo riferendomi all'Italia in sé che, a parer mio, non perde occasione per dimostrare quanto sia un “piccolo paese”; penso, ad esempio, alle polemiche sul gender degli ultimi tempi, ma anche, e soprattutto, a quella che è la realtà dei vari blog e collettivi letterari attivi sul territorio che, salvo rari casi, troppo spesso si trasformano in realtà sterili in cui si dà peso solo a pochi eletti, a discapito di una vera ricerca, valorizzazione e diffusione della cultura. La poesia non è intesa come un fine a cui tendere, ma viene ridotta a un semplice mezzo attraverso cui incanalare  ed esaltare l'ego dei poeti coinvolti. Triste, ma per fortuna esistono le eccezioni. Rispetto al libro precedente, Cartoline, è presente molto meno nichilismo; sarcasmo e ironia prendono il posto della rabbia, e c'è una nuova voglia di ricominciare, sia per quanto riguarda l'ambiente poetico, sia per quanto riguarda la vita di tutti i giorni. È il punto di arrivo di un viaggio, il punto di inizio di un altro.