sabato 30 gennaio 2016

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: CARLO BETOCCHI


di FRANCESCO GALLINA


Poeta dai più dimenticato, Carlo Betocchi è stata una delle voci più originali ed indipendenti della poesia della seconda metà del secolo XX. Per la sua consueta rubrica di poesia, #busillisblog vi propone la sua Estate di San Martino (1961): vicino alla poetica pascoliana del fanciullino, resta attaccato a forme metafisiche di interpretazione del reale. Montaliani barbagli di luce e crepuscolari dialoghi silenziosi rimbalzano fra i rossi embrici, superficie su cui un elemento lontano e misterioso - forse un ricordo, forse un'allucinazione - proietta il proprio enigmatico sguardo: un'epifania. 

La lirica è accompagnata dal vivace cromatismo dei Tetti di Roma di Renato Guttuso.


DAI TETTI

in L'ESTATE DI SAN MARTINO (1961) di CARLO BETOCCHI




Renato Guttuso, Tetti di Roma, 1942



E' un mare fermo, rosso,
un mare cotto, in un'increspatura
di tegole. E' un mare di pensieri.
Arido mare. E mi basta vederlo
tra le persiane appena schiuse: e sento
che mi parla. Da una tegola all'altra,
come da bocca a bocca, l'acre
discorso fulmina il mio cuore.
Il suo muto discorso: quel suo esistere
anonimo. Quel provocarmi verso
la molteplice essenza del dolore:
dell'unico dolore:
immerso nel sopore,
unico anch'esso, del cielo. E vi posa
ora una luce come di colomba,
quieta, che vi si spiuma: ed ora l'ira
sterminata, la vampa che rimbalza
d'embrice in embrice. E sempre la stessa
risposta, da mille bocche d'ombra.
- Siamo - dicono al cielo i tetti -
la tua infima progenie. Copriamo
la custodita messe ai tuoi granai.
O come divino spazio su di noi
il tuo occhio, dal senso inafferrabile.


martedì 26 gennaio 2016

CI SIAMO CALATI LE BRAGHE DAVANTI ALL'ISLAM, MA SENZA MOSTRARE I NOSTRI GENITALI


di FRANCESCO GALLINA




Quattro pannelli coprono completamente la vista di sculture capitoline raffiguranti corpi nudi: sembrano cadaveri chiusi in scatola, come le sardine sott'olio. Il presidente Rohani non dev'essere offeso, per l'amor di Dio, o meglio, per l'amor di Allah. In Italia sbarcano televisioni iraniane e sarebbe uno scandalo vergognoso agli occhi del Corano poter trasmettere anche solo di sfuggita la sensualità di un corpo. Con la sua stupida diplomazia, Renzi - e quindi lo Stato italiano - si sottomette all'Islam. E, in questo, è perfettamente coerente, perché l'Islam è pura sottomissione: la cultura islamica ha nel suo nome il dna del suo male: la rinuncia, il sacrificio, la violenza. Non serve uccidere qualcuno per dirsi violenti: basta cancellare il corpo con un burqa, o più semplice impacchettare un'opera d'arte per la ragion cretina che rappresenta attributi umani che sono vergognose per i soli che le considerano tali.

Papa Ratzinger lo aveva detto apertamente, riferendosi all'Europa, nella splendida Lectio Magistralis del 13 maggio 2004 (quand'era ancora cardinale): "C'è qui un odio di sé dell'Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l'Occidente tenta sì in maniera lodevole di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L'Europa, per sopravvivere, ha bisogno di una nuova - certamente critica e umile - accettazione di se stessa, se essa vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie.". 

L'aniconismo islamista trova le sue radici nel dictat maomettano per cui "Un individuo che ritrae un essere vivente [...] verrà torturato fino al Giorno del Giudizio». Secondo gli integralisti islamici i termini «forma», «dare forma», «il formatore» sono attribuibili solo e soltanto a Dio. D'altronde, "non entrano gli angeli nella casa in cui c'è un cane o un'immagine corporea". Assorbendo il platonismo più squallido, gli islamici negano il corpo per dedicarsi al solo Iperuranio. Mentre il Cristianesimo (quello vero, mica quello medievale, cioè quello contemporaneo) caccia giù dal cielo le idee per farne corpo, l'Islam caccia il corpo al di sopra delle idee, cioè fa del corpo una pura idea. E le idee, infatti, sono invisibili. Il corpo è male, per il Corano. La sua rappresentazione artistica, un sacrilegio. Vivesse ai giorni nostri, Maometto avrebbe buttato una mano di intonaco bianco sulle pareti della Sistina. Il corpo, per Maometto, fa schifo. E la donna in particolar modo, perché ne permette la procreazione.

Non solo: "il vino [...] è opera immonda di Satana" che dev'essere evitata. Non per niente, a tavola con Rohani, si pranza e si cena senza vino.  

Quello che è succede in Italia in questi giorni non solo è patetico e pietoso, ma ben rispecchia le idee di una Chiesa cattolica progressista che aprì, col Concilio Vaticano II, ad un relativismo religioso che consentiva di considerare "verità che illumina tutti gli uomini" precetti appartenenti a religioni anche molto differenti dalla propria. Il culmine lo si è avuto quando nel 1999 Giovanni Paolo II arrivò a baciare il Corano e ad aprire il dialogo con chi il dialogo non vuole avere, altrimenti accetterebbe quanto v'è nel mondo di diverso rispetto al suo punto di vista. Integrare vuol dire questo, non abiurare alla propria cultura, alle proprie fondamenta. 

Con l'arrivo di Rohani ci siamo calati le braghe davanti all'Islam, ma senza mostrare le nostre nudità, le nostre origini, il nostro seme, i nostri genitali.

domenica 24 gennaio 2016

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: EUGENIO MONTALE



di FRANCESCO GALLINA


Disabili fisici e mentali, omosessuali e delle lesbiche, della strage degli zingari, dei testimoni di Geova, prigionieri politici. Non furono deportati solo gli ebrei, come la storia annacquata tende ad insegnarci. La pulizia etnica hitleriana fu radicale e non riguardo il solo popolo ebraico, da un punto di vista numerico certamente il più tartassato. In vista del 27 gennaio, #busillisblog non sceglie una poesia patetica sull'Olocausto, perché la Shoah non merita né considerazioni pietiste né nazionalistiche, ma osservazioni storicamente corrette ed esaustive. Ricordare un evento solo perché tragico, di per sé, non serve a nulla.
E infatti la lirica di Eugenio Montale che oggi vi proponiamo non parla né di Shoah né di campi di concentramento, ma della religione nazista: quando Montale la scrive, non può ancora sapere dei campi di concentramento e di sterminio (che, per la cronaca, non sono la stessa cosa), sebbene i primi campi di concentramento per soli deportati politici risalgono al 1933. La primavera hitleriana, invece, si concentra profeticamente sull'origine di tutto: la mistificazione, l'ideologia mortifera, la fatale teologia nazista che, per un momento, sbarca a Firenze nel 1938, per stringere la mano a Mussolini, portando una metaforica folata di gelo. Il gelo che spira quando si applica matematicamente un concetto alla realtà.
Accompagniamo questo piccolo gioiello montaliano (tratto dalla Bufera e altro del 1956) con uno degli sconcertanti disegni di deportati, selezionati e raccolti in K.Z. disegni dai campi di concentramento (2014) da Arturo Benvenuti, frutto di una ricerca durata oltre 40 anni. Non sappiamo se si tratti di ebrei, ma questo non ci interessa. L'unica cosa di cui siamo certi è che si tratta di persone a cui è stata rubata la dignità, uomini ridotti a cose, numeri, feticci.


LA PRIMAVERA HITLERIANA

in LA BUFERA E ALTRO (1956) di EUGENIO MONTALE





Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,
di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.

Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio….
                                         Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince -
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud…

venerdì 22 gennaio 2016

LA DONNA A METÀ: QUANDO LO STUPRO È LEGITTIMATO DA DIO



di FRANCESCO GALLINA


Le vostre spose per voi sono come un campo. 
Venite pure al vostro campo come volete, ma predisponetevi.





Per un musulmano che segue il Corano - perché chi non lo segue è un miscredente e merita la pena di morte - le donne valgono la metà dell'uomo. Secondo le leggi coraniche una donna non può mai provare una violenza sessuale e, qualora lo facesse, sarebbe lei ad essere condannata per adulterio. Per Allah, le donne sono "come un campo" (2, 223) su cui si può piantare e seminare come all'uomo pare e piace. Se l'uomo vale il doppio della donna è perché l'uomo è il prediletto di Allah, e Allah gli acconsente di essere preposto alla donna. Amaro è il destino di coloro che non si sottomettono al volere dell'uomo: che "insubordinate" siano dunque lasciate "sole nei loro letti" (4, 34) e battute. Il corpo delle donne dev'essere coperto, e si copre ciò che è estremamente peccaminoso e legato alla materia, alla carne: è un'ideologia vecchia come i greci. Un velo nero che soffoca un corpo è un velo nero che cela qualcosa di orribile e schifoso agli occhi dell'uomo. Pochi hanno il coraggio di dire che quel velo è un insulto uno stupro al corpo e alla sua psiche: ne sono conferma le donne siriane che, uscite dal Califfato Isis, si sono liberate del niquab nero con il sorriso sulle labbra. Un corpo coperto è un non-corpo, è un corpo violato, schiacciato: un corpo su cui tutto si può fare. Sono fondamenti culturali, si dice, nascondendo il fatto che la Cultura non è altro che una forma laica di Religione, e viceversa. Parole svuotate di senso, che vengono dal cielo del nulla.

Date le premesse, quale differenza c'è tra lo stupro di un branco di musulmani e lo stupro occidentale? Per Federica Mogherini, Alto Rappresentante della Politica Estera, non ci sono differenze. E avrebbe ragione, se non avessimo dato le premesse, appunto. L'atto dello stupro è vile sempre e comunque, ma è la legittimazione che cambia le carte in tavola. Se lo stupro è stato organizzato e premeditato da musulmani, quello stupro non è loro responsabilità, ma volere di un Dio superiore, altissimo, infallibile e dalle qualità talmente elevate da essere irraggiungibili. Come dire: se lo dice Allah, allora è la cosa giusta. D'altronde, Allah è Akbar, cioè "il più Grande", e davanti alla grandezza di Allah i miscredenti devono solo soffrire e morire. Se la donna è un campo e se la donna è europea, quindi miscredente, se ne deduce che quanto successo ha lo stesso valore che per Attila aveva gettare il sale sulla terra o per un cane segnalare il suo confine con il piscio. 

Per risolvere il problema, loro hanno Allah. E noi? Noi il suo surrogato: l'Amore. Che cosa? Avete capito benissimo. I più efferati omicidi, in Italia, ottengono sconti di pena non appena si cita in appello l'amore, cioè qualcosa di estremamente astratto che l'occidente (anche cristiano, anzi, soprattutto cristiano) ha accolto a partire dalla fine dell'Alto Medioevo: è stato sufficiente che gli arabi penetrassero in Spagna, gettassero il loro sperma nella Linguadoca dei trovatori e lasciassero fecondare il tutto in Francia, Sicilia, Italia e Germania. Gli stessi cluniacensi erano attratti dal mondo mozarabico e, nel tentativo di sconfiggere il pericolo saraceno, si sono lasciati influenzare con quanto di peggio avevano da offrire: la Causa Agente, il Primo Immobile deresponsabilizzante (cioè il peggio della cultura greca che tanto continuiamo ad osannare).

Noi occidentali siamo i maestri della deresponsabilizzazione. Noi occidentali siamo gli inventori del raptus e il bifidus actiregularis. Cioè di cose che non esistono. Ma soprattutto siamo artisti nel gettarci la altrui merda addosso, di attribuirci colpe di altri pur di far i buoni, quasi che esprimere un pensiero politicamente scorretto sull'islamismo sia un delitto. Anche in questo caso, la ghigliottina per autotagliarci la lingua, la prendiamo da loro. Donatella di Cesare, ad esempio, scrive sul Corriere della Sera qualcosa che ci pare aberrante: "Piuttosto si deve credere che quegli uomini, per lo più giovani, abbiano interpretato la festa di Capodanno come l’occasione per divertirsi all’occidentale, in modo disinibito, spregiudicato, sfrontato. Come se ogni limite dovesse cadere, o fosse già caduto.". A questo punto, la responsabilità di quanto accaduto non è neppure più Allah, e nemmeno l'Amore. No, la colpa di tutto è nostra, perché tutti sanno che noi uomini, per Capodanno, stupriamo le donne. 

Con questi ragionamenti dovremo farci l'abitudine sempre più spesso: quanto più lo spirito della deresponsabilizzazione penetrerà nei nostri cervelli (una sorta di berlusconiano "complotto" che ci lava da ogni colpa), tanto più saremo tali e quali ai nostri conquistatori: sottomessi. Islam: nomen omen. Sottomissione, rinuncia, sacrificio. Morte.

Il rapporto della "Bild" scrive che la polizia ha avuto un mandato dal Ministero degli Interni di sottovalutare e non insistere su informazioni quando avvengono reati commessi da immigrati per non rompere la pace sociale. Sottovalutare, pace sociale: eccolo l'astrattismo che risalta fuori, gli alti spiriti a cui ci pieghiamo. Le Idee prima delle Cose: Platone, islamico ante litteram, ben lo sapeva che, qui sulla terra, tutto è sbiadito e di valore dimezzato. Come la donna, appunto. Lo stupro commesso da un uomo, qui, non è godurioso e luminoso come nell'Iperuranio. E se lo stupro è dogma di Allah, e Allah è Bene Supremo, allora lo stupro gravita nella sfera del Bene. 

Le basi ci sono tutte. Le basi per un Nuovo Medioevo, nuovi angeli, nuovi demoni, nuove divinità. Quello che è avvenuto a Colonia si spiega molto facilmente, perché appartiene a una cultura. E le culture è meglio lasciarle perdere. C'è il rischio che diventino culti.

mercoledì 20 gennaio 2016

TORNATORE, "LA CORRISPONDENZA" E LA POETICA TROBADORICA



di FRANCESCO GALLINA




Durante il secolo XII, in Linguadoca, visse uno dei più affascinanti trovatori, Jaufré Rudel, principe di Blaia. La sua concezione d'amore fu talmente potente, ficcante e paradossale, che tutta la lirica trobadorica ne risultò influenzata. In Lanquan li jorn Rudel, fra ispirazioni mediolatine, classiche e arabiche, coniò un'espressione da cui la letteratura europea e mondiale non si sarebbe più separata: amor de lohn. L'amore platonico diventa qualcosa di distante, lontano, irraggiungibile, quindi non corrisposto, insoddisfatto e sintomo di nevrosi.

Amor de lohn avrebbe potuto essere il titolo dell'ultimo film di Tornatore, La corrispondenza. Dopo un capolavoro come La migliore offerta, era prevedibile che il regista di Bagheria avrebbe proposto qualcosa sotto l'asticella dell'eccellenza. Non è il suo film migliore, questo no, ma Tornatore non delude mai, anche quando non è in massima forma. Il film di Tornatore è barocco, ma quel che più sazia è la sua retorica un po' troppo carica e difficilmente digeribile, quasi scollata dalle immagini. Anche la colonna sonora di Tornatore appare troppo sontuosa. Se la regia è sempre rigorosissima e le location lasciano a bocca aperta (l'isola di San Giulio sul Lago d'Orta è una chicca), meno lo è la sceneggiatura, tutta dialoghi densi e poco intreccio. Raramente un film italiano di buona fattura si mette al centro dell'attenzione la fondamentale - ma ossessionante - comunicazione tra persone mediata dalla tecnologia, che si fa custode di sentimenti romantici, ma autodistruttivi, divenendo perciò strumento maledetto ed angosciante. Skype, SMS, email, schedine video, ma anche lettere tradizionali: è questa l'intensa e morbosa corrispondenza 2.0 fra Ed Phoerum, sessantenne docente universitario di astrofisica, e la sua giovane amante Amy Ryan, ex studentessa fuori corso che sfoga le sue tensioni lavorando come atletica stuntman. Tutto sarebbe naturale, se Ed fosse vivo. Ma Ed, all'insaputa della ragazza, è affetto da un raro tumore che lo porta alla morte. E scriviamo questo è perché lo si viene a scoprire subito, quindi non è da considerarsi colpo di scena spoilerato. Altra grave pecca: un evento del genere avrebbe potuto essere svelato almeno a metà del film, e invece si decide di spiazzare lo spettatore dopo solo una ventina di minuti. Non vi resta che scoprire come un defunto possa riuscire a recapitare i suoi messaggi alla sua amata.

Gli amori di Tornatore sono strazianti, ma se quello de La migliore offerta era macchiato da thriller e noir meravigliosamente orchestrati, questo è più sbrodolato di sentimentalismo, esaltato dalle musiche strazianti e sontuose di Morricone che, anche nel suo caso, non offre la sua migliore prova.
Il vizio del film è la sua eccessiva artificiosità, sebbene risulti comunque affascinante come Tornatore riesca a ordire trame mai banali declinandole su temi ormai triti e ritriti, come quello di Eros e Thanatos. Ma, anche in questo caso, Tornatore è stato preceduto dal più divertente P.S. I Love (2007) di Richard LaGravenese. In attesa di un nuovo capolavoro, La corrispondenza non è affatto film sconsigliato, ma pretende che lo spettatore possegga chiavi interpretative raffinate e colte. Quella trobadorica è, a nostro avviso, la migliore per decrittare gli effetti che l'amore lontano, vissuto "di testa" e "non di corpo" può avere sull'essere umano. 



lunedì 18 gennaio 2016

"INTRODUZIONE AL MONDO" DI I. HOXHVOGLI: L'INFELICE FALLACIA DELLA FELICITÀ



di FRANCESCO GALLINA




C'era una volta il mondo. Nel mondo c'era una città. In questa città
c'era un altoparlante. In questo altoparlante c'era un'anima. In quest'anima
c'era lo spirito dell'epoca. Nello spirito dell'epoca c'era l'allegria. Nell'allegria
c'era la melanconia, che un giorno rovesciò l'allegria. L'allegria rovesciò
lo spirito dell'epoca. Lo spirito dell'epoca rovesciò l'anima. L'anima rovesciò
l'altoparlante. L'altoparlante rovesciò la città. La città rovesciò il mondo.





Bolla d'aria ridotta all'insignificanza più totale, la felicità non è altro che una balzana teoria metafisica non solo inesistente, ma estremamente nociva. La felicità, o allegria che dir si voglia, dopo più di duemila anni di storia e di apparente progresso, ricade ancora su di noi da un iperuranio platonico astratto e invisibile. Ci hanno provato fiori fiore di religiosi, mistici e filosofi, a elaborare una ricetta della felicità ma, come per l'amore, hanno sempre fallito nel loro misero intento. Occorre arrivare a Freud perché si scopra che l'uomo felice è una bazzecola, un ideale soffocante: l'uomo è fatto di piacere, non di felicità, ed è fatto di corpo e pensiero, non di anima. L’anima è aria fritta, infatti significa in origine “aria”. L'uomo è come le lettere concepite da De Saussure: la a, da sola, assume senso se e solo se si accosta alle sue compagne di alfabeto; senza di esse, non sappiamo che farcene. Dunque, il piacere che l’uomo prova deriva esclusivamente dal rapporto con altri uomini o prodotti umani, non certo grazie a formule fatiscenti, tuttora sfruttate dall'intellighenzia mondiale economica e politico-religiosa. Quella della felicità è la fallacia cosmica di più grande successo nella storia dell'umanità, a cui tanti, troppi, si sono aggrappati per tentare disperatamente di sopprimere le proprie insicurezze, le proprie assillanti inquietudini.

Leggendo quella piccola perla filosofico-letteraria che è Introduzione al mondo (Orientexpress) di Idolo Hoxhvogli* (novembre 2015) non vi ho scorto altro che tutti i più deteriori aspetti della filosofia classica e medievale travasati nel mondo contemporaneo, un oscurissimo Nuovo Medioevo. L'opera è un conte philosophique dalle fattezze evangeliche, perché strutturata in parabole, piccole storie, rapidi frammenti direttamente provenienti dalla Città dell'Allegria. L'ironia e la ferocia con cui ci vengono dipinti questi idilli al negativo ricordano da un lato Marcovaldo di Calvino, dall'altro le distopie di Orwell. Il libro si presenta tripartito: La città dell'allegria diagnostica alcune delle più gravi malattie della società contemporanea; Civiltà della conversazione mostra il tragico destino delle parole ai nostri giorni; Fiaba per adulti racconta la pedofilia dal punto di Allegra, una bambina. 

La città dell'Allegria è la città utopica per antonomasia che, per dirla con Platone, trascina a forza il mondo delle Idee nel mondo delle Cose, mentre caccia la concretezza dei corpi e delle cose al di là (o aldilà) del mondo. La città dell'Allegria è la letteraturizzazione romanzata dell'umanesimo di Feuerbach, contrario alla cosiddetta antropologia rovesciata: l'uomo ha sacrificato - e continua a sacrificare - sé stesso proiettando le proprie qualità e le proprie sognanti aspirazioni in un Dio a lui esterno e impalpabile. Sacrificandosi della propria essenza, l'uomo, divenuto mistico di primo pelo, esalta quanto non ha a che fare con la carne e con la materia, inneggiando all'ascesi e alla fuga dal mondo: in altre parole, un uomo alienato. Ci vorrà Freud per dire che fuggire dal mondo significa piombare nella nevrosi. E, infatti, tutti gli abitanti di Allegria, eccetto gli stranieri, sono depressi, inquieti e angosciati. Lo sono anche coloro che vorrebbero uscire dal sistema, ma il sistema è pervasivo, e non glielo permette. 

L'Allegria, dunque, è un sistema: il Sistema. Idolo Hoxhvogli è abile nell'immaginare quella che la pseudoscienza continua a definirci, blaterando, "formula della Felicità". La città è percorsa dalla voce reiterata proveniente da innumerevoli altoparlanti, che emettono un monotono imperativo categorico: "Allegria!". Se la ripetizione è morte, Allegria non è morta, cioè, diversamente da quanto sosteneva Nietzsche, Dio è più che mai vivo e vegeto, solo che la gente non lo sa, perché lo chiama in modi diversi, per convincersi di essere atea. 

È sufficiente conoscere la filosofia aristotelica ed emanazionista per capire che cosa sia quell'altoparlante agente che attiva gli altoparlanti passivi, trasmettendo loro una "sostanza animica". Come non vedervi il Primo Mobile di Aristotele o, meglio ancora, la distinzione fra Intelletto Agente ed Intelletti Possibili così come sono teorizzati da Averroè? Degli 'allegri' altoparlanti il narratore traccia una mappatura con la precisione di un fisico: "struttura", "formulario per la comprensione del mondo" e un'"architettura della civiltà". Civiltà anch'essa intesa come Cultura con la C maiuscola, che stritola l'umanità sotto il torchio delle sue infide ideologie, trasformandosi in religione a tutti gli effetti: è quello che sostiene Freud in Totem e tabù, ma soprattutto nel Disagio della civiltà, in cui ci dice che lo sviluppo della civiltà si paga con la frustrazione e la nevrosi. L'allegria che gli abitanti provano non è un umano senso di piacere, ma una beatitudine che li rende beati e beoti allo stesso tempo, un po' come le anime nel Paradiso di Dante, afasiche, apatiche e ridotte a pura luce, dotate di parola, ma di una parola emanata da Dio, quindi non propria, non personale. 

La spersonalizzazione coinvolge anche le parole, in origine magnifico frutto dell'uomo, ora scaduto a roscelliniano flatus vocis. Nell'assuefazione da astrazione, la parola si svuota del suo significato per assumere la forma di un significante o, peggio ancora, di una venerabile icona. Tutto è così vuoto da rendersi leggero come una piuma, volatile. Gli uomini non riescono a stare con i piedi per terra e allora inventano nuove parole e nuove teologie, come quella televisiva che vomita ammassi di letame (di odore pasoliniano), quella che impone feste a orologeria, o ancora quella che, da sempre, #busillisblog combatte a spada tratta: il politically correct, il Satana del XXI secolo.

Ho conosciuto questo scrittore proprio nella ricerca di persone avverse alla logica piatta, benpensante, falsamente trasgressiva e, in fondo, solamente confusa o ignorante. Introduzione al mondo è un libro che nasce per essere riletto, per trivellare le parole, talmente consistenti da bucare la pagina con la loro matericità barocca. E qui sta il solo difetto, che chiamerei "la sindrome di chi legge Gadda per la prima volta dicendo che è brutto solo perché non ci capisce". Inutile nasconderlo: nella sua adorabile impurità (sarà un caso che la prefazione è a firma di Sonia Caporossi?), il romanzo di Idolo Hoxhvogli non potrà essere compreso da tutti, almeno da chi è solito leggere una sola volta con la pretesa di avere tutto chiaro e da chi mastica un vocabolario infantile (le stime sull'Italia, a riguardo, non sono confortanti). Sconsigliato al lettore scazzato e a quello che "la filosofia è pesa", è consigliato al comparatista che vuole entrare in contatto con la produzione italiana di uno scrittore albanese (dominante il tema dell'integrazione), al filosofo che vuole respirare una boccata d'aria lontano dai mattoni accademici o, più semplicemente, a chi vuole assaporare un libro parodico e graffiante, scritto da un giovane e ottimo pensatore. E a #busillisblog piace chi pensa con la propria testa.


*IDOLO HOXHVOGLI è nato a Tirana nel 1984. È laureato in Filosofia alla Cattolica di Milano. Suoi scritti sono presenti in numerose riviste italiane e straniere, tra cui «Gradiva International Journal of Italian Poetry» (State University of New York at Stony Brook) e «Cuadernos de Filología Italiana» (Universidad Complutense de Madrid). Ha collaborato con 24 Letture del "Sole 24 Ore", Quasi Rete della "Gazzetta dello Sport" e Il Fatto Quotidiano  Online (www.il fattoquotidiano.it/blog/ihoxhvogli/).

La bellissima illustrazione in copertina è Il cittadino Leo di LORIS DOGANA.


sabato 16 gennaio 2016

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: UMBERTO SABA


di FRANCESCO GALLINA


Per la consueta rubrica del sabato di #busillisblog, la casa propone una poesia di Saba, tratta da Parole (1934) e facente parte delle Cinque poesie per il gioco del calcio. In strofe esastiche di endecasillabi, si riflette sul dolore del portiere battuto, sull'ebrezza della folla e sulla gioia solitaria del secondo portiere, forse la figura più interessante, che meglio adombra lo spirito di Saba: innamorato della vita, ma bisognoso di un cantuccio dal quale contemplare la vita con un certo distacco. Il calcio è sport ancora umano, fatto di partecipazione e bisogno degli spettatori di sentirsi partecipi del sentimento altrui. La poesia è accompagnata dalla Partita di calcio di Carlo Carrà, che fa del calcio un soggetto dignitoso per essere accolto anche dall'arte pittorica e tramandato come evento. Risale al 1934, l'anno della vittoria italiana ai Mondiali di Calcio (notare le maglie azzurre), e il pallone assume connotati metafisici, lontano e irraggiungibile, come un ideale.

GOAL

da PAROLE (1934) di UMBERTO SABA


Carlo Carrà, Partita di calcio, 1934, Galleria Comunale d'Arte Moderna di Roma


Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla- unita ebrezza - per trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore, 
è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere
- l’altro - è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa - egli dice - anch’io son parte.

domenica 10 gennaio 2016

"IL VECCHIO CHE SOGNAVA I LEONI": GREGORIO FUENTES RIVIVE NEL TEATRO DI ARGANTE STUDIO


di FRANCESCO GALLINA


Paolo Briganti


Come una bella pinta di cerveza cubana, limpida, aromatica, striata di venature dorate, dal gusto rotondo e dissetante. Serviva qualcosa di profondo e avvolgente per scaldare questi insipidi e freddi giorni parmigiani. Perché Parma non è Cuba: lapalissiano, a meno che... A meno che non si porti in scena una sceneggiatura teatrale dalle solari atmosfere cubane. La scenografia è poverissima, quasi assente, ma per rendere il tutto vivo e appassionante è sufficiente un testo scritto con sapienza, recitato da due attori di spessore e accompagnato dalle musiche di una professionista (cubana, ça va sans dire). Stiamo parlando de Il vecchio che sognava i leoni, l'ultimo gioiellino teatrale offerto alla città di Parma da Argante Studio, in collaborazione con  Scenari Armonici e Istriomania. Sul palco due docenti dell'Università degli Studi di Parma: da un lato Paolo Briganti, veterano professore  di Lettere dallo spirito giovane e brioso, dall'altro il figlio Andrea Briganti, professore di Lingua e Traduzione spagnola, e Yalica Jo, violoncellista, cantante e compositrice. Lo spettacolo, appartenente al genere del teatro narrazione, è andato in scena il 9 gennaio 2016 alla Corale Verdi, in una sala attraversata da un continuo flusso di spettatori.

Andrea Briganti e Paolo Briganti

Yalica Jo
Flusso. Ecco, flusso è la prima parola con cui descriverei l'opera, perché è soprattutto di questo che si tratta: del flusso ragionato e meditato dei ricordi che padre e figlio hanno di un viaggio realmente avvenuto. Siamo a Cuba,  intorno agli anni 2000. In Italia c'è il Secondo Governo D'Alema. L'occasione del viaggio è uno scambio universitario: un gruppo di ricercatori cubani viene accolto a Parma, mentre un gruppo di docenti parmigiani "emigra" a Cuba. A distanza di una quindicina d'anni, Paolo e Andrea ripropongono le tappe salienti di quel viaggio, fra ironia, sentimenti ed affioranti trucioli letterari. Chi conosce il professor P. Briganti ha ben presente non solo la genuina passione con cui ha insegnato per tanti anni, ma anche il suo piacere nel raccontare storie di vita vissuta nei luoghi respirati dai grandi scrittori del Novecento: memorabile la sua lezione sul viaggio a Marradi, piccola patria di Dino Campana. 

Il protagonista, in questo caso, è Hemingway, o meglio, il vecchio Santiago de Il vecchio e il mare: il vecchio che sognava i leoni, appunto. I due turisti non si lasciano sfuggire l'occasione per fare visita a quello che si pensa essere il reale vecchio che lo scrittore americano mette al centro del suo capolavoro. Un'attrazione turistica, ormai. Un ultracentenario, ma ultra quanto? Nessuno lo sa, neppure lui, il vecchio, Gregorio Fuentes, nato ad Arrecife (Canarie), vissuto nella cocente Cojimar e morto tre anni dopo l'incontro con Paolo e Andrea, nel 2002. Gregorio è rimasto orfano quand'era ancora piccolo e non sa esattamente l'anno della sua nascita (forse 1897). Quello che sa fare è pescare e raccattare quel po' di dollari che i turisti gli donano e che sono necessari per mantenere la sua numerosa famiglia.

E Manolin? Chi è il giovane ragazzo che affianca Santiago? E #busillisblog non ve lo dice, perché vi svelerebbe il pulsante cuore interpretativo di questo originale e avvincente recital che speriamo venga riproposto in futuro. Una performance fatta, si potrebbe dire, di sole parole e musica. Ma le parole sono come il marlin che si lascia catturare dal vecchio: rare, preziose e sgargianti. Bastano loro per creare tutto il resto. Meglio che si lascino catturare da chi ha la maestria di plasmarle a regola d'arte. Le parole non meritano i pescicani: Argante Studio lo sa. 

sabato 9 gennaio 2016

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: GIORGIO CAPRONI

di FRANCESCO GALLINA

L'altro ieri si è celebrato l'anniversario della nascita di Giorgio Caproni (1912-1990), poeta novecentesco impregnato di classicismo e legato ad immagini tradizionali. Come quelle di Senza esclamativi, che ripropongono immagini di fattura provenzale. Il dolore è profondo, alto. L'amore è una bestia velenosa e  la parola si fa afasia, un po' come Dante davanti a Beatrice o ad un Dio luminoso, talmente luminoso da accecare. Un viaggio del cuore, quello di Caproni, che vive senza esclamativi, di un amore platonico che toglie le parole di bocca perché, in quanto vuoto assoluto, angoscia e annichilisce. Un salto nel buio, come salti sono i frequenti enjambements e la sintassi franta.


René Magritte, Amanti, 1928



SENZA ESCLAMATIVI

da IL MURO DELLA TERRA di GIORGIO CAPRONI

Com'è alto il dolore.
L'amore, com'è bestia.
Vuoto delle parole
che scavano nel vuoto vuoti
monumenti di vuoto. Vuoto
del grano che già raggiunse
(nel sole) l'altezza del cuore.

da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/autori/g/giorgio-caproni/pag1>

martedì 5 gennaio 2016

UN INNO ALL'ANTI-FANATISMO: IL PONTE DELLE SPIE



di FRANCESCO GALLINA





Raffinato, elegante e scritto con grande maestria, Il ponte delle spie non è certamente il capolavoro di Spielberg, ma risulta comunque un'opera godibilissima ed istruttiva. Pecca chi lo accusa di patriottismo: Il ponte delle spie è tutto fuorché patriottico e nazionalistico. Non perché il protagonista è un americano il film deve necessariamente essere considerato un un retorico inno alla bravura americana, anzi, nel fotografare eccellentemente il tragico inizio della Guerra Fredda, il film ritrae il fanatismo politico trilateralmente: ad essere passato sotto il setaccio della critica storica non è solo l'URSS, ma anche la DDR e gli stessi USA. 
Ma procediamo con ordine.

Brooklin, 1957. Il ritrattista e paesaggista Rudolf Abel (interpretato da un apatico e bravissimo Marc Rylance) è arrestato con l'accusa di essere una spia sovietica. James B. Donovan (Tom Hanks), avvocato assicurazionista, è chiamato nel difficilissimo compito di garantire assistenza legale all'uomo, sebbene il tribunale di Stato americano non veda l'ora di sbatterlo sulla sedia elettrica. La protezione legale vuole essere solo una copertura ideologica per mostrare quanto gli USA siano un Paese civile e fondato su saldi principi costituzionali. Il processo dovrebbe essere il più breve possibile, ma Donovan, inaspettatamente, prende a cuore il caso e da semplice spalla legale, veste i panni di un accanito - ma pur sempre umano e pacato - difensore di Abel. Il rischio è altissimo e non mancano i primi tremendi attacchi all'incolumità dell'uomo, che si attira gli sguardi torvi degli americani anti-comunisti a tutti i costi. Pressato e messo in guardia dallo stesso Abel, anch'esso uomo riflessivo e di sangue freddo, l'avvocato resta sulle sue posizioni e annusa, assicurazionista qual è, un possibile incidente che potrebbe capovolgere la situazione. 
Il fiuto è infallibile: un aereo spia U2 è abbattuto dai sovietici e il giovane tenente Francis Gary Powers (Austin Stowell) è catturato con l'accusa di spionaggio. Negli stessi giorni un giovane Frederic Pryor (economista tuttora vivente, interpretato da Will Rogers) viene arrestato dalla Stasi per tentato passaggio del muro di Berlino, ancora fresco di malta. La CIA sfrutta Donovan perché da cittadino americano - e non in qualità di ambasciatore - liberi Powers in cambio di Abel. 

Quelli che più interessa non è la storia e il suo finale, ma la capacità che Donovan ha di trattare gli uomini come uomini e non pezzi di una scacchiera pronta a fare scacco da un momento all'altro. Donovan si scontra con la diffidenza americana, con il celodurismo della DDR, nascente Stato-fantoccio che si crede una potenza mondiale, e con le oscure trame di un Unione Sovietica invidiosa e a tratti ridicola. La Guerra Fredda non è un modo di dire: ad essere in gioco sono uomini intesi come feticci il cui unico imperativo categorico è suicidarsi al primo errore compromettente. Una guerra fatta di muri, ma anche di ponti, ragionate parole, strade meditate. Cioè quello che oggi manca: le parole ragionate, s'intende.

domenica 3 gennaio 2016

CHRISTOPHER NOLAN, L'ANTIPLATONICO



di FRANCESCO GALLINA







Mi sembra che, col tempo, in qualche modo, abbiamo iniziato 
a guardare alla realtà come alla cugina povera dei nostri sogni. 


Platone era lo Steve Jobs greco. O Steve Jobs era il Platone americano. Insomma, invertendo i fattori, il risultato non cambia. Stiamo parlando di reminiscenze platoniche nella contemporaneità, dove è tutto un brulicare di inviti a sognare e ad essere folli. Non che vi sia una, dico una persona che inviti a godere della realtà, quella che è sotto gli occhi di tutti, senza tanto animismo. Viviamo immersi in un costante gracidio di sottofondo che vorrebbe che sognare ad occhi aperti sarebbe quanto di più bello vi sia, quando invece è solo azione foriera di angosce. Sognare ad occhi aperti consiste nel proiettare entusiasticamente (entusiasmo significa essere in Dio) il proprio desiderio (desiderio deriva da de-sidera, ambire alle stelle, quindi a qualcosa di impossibile) nel futuro, e lo si fa tanto intensamente che, qualora il sogno si infrange, la depressione è alle porte. Anche il suicidio, talvolta. Alcuni, nella storia, sognavano tanto ad occhi aperti, che vivevano sugli alberi come Cosimo Piovasco o sulle cime delle colonne. Si chiamavano eremiti, e non facevano granché nella loro vita se non eliminare quanto di più fruttuoso ci possa essere nella vita di un uomo: il rapporto con l'altro. Gli altri che sognavano ad occhi aperti erano i mistici, che speravano di sciogliersi dalle catene della carne per confluire nella trascendenza divina. Il tempo passa, ma Platone resta. Che si chiamino Dante Alighieri, Santa Teresa, Maestro Eckhart o Matteo Renzi, stiamo parlando solo di duplicazioni platoniche. Il platonismo in soldoni è uno stupido dualismo che divide il brutto mondo delle Cose da uno stupefacente mondo delle Idee. E i sogni son desideri, come canterebbe qualcuno: infatti, per Platone, il desiderio è Amore che conduce al Bene. 

Questi sono i sogni fuffa. Ma esistono anche i sogni veri, quelli che si fanno a occhi chiusi, durante la notte, e sono validi alleati della psiche dell'uomo, perché rivelano i "lati oscuri" (risento anch'io degli spot su Star Wars), ma reali, dell'inconscio. Il sogno è elaborazione notturna del pensiero, perché il pensiero non va a letto, ma lavora 24 ore su 24. E il pensiero è reale, come il sogno. 

Cosa c'entra con Christopher Nolan? Nell'estate 2015, Nolan, regista che apprezzo moltissimo, tiene un discorso agli studenti di Princeton a proposito di uno dei suoi capolavori da lui scritto, prodotto e diretto: stiamo parlando di Inception. Il film vede protagonista Dom Cobb, estrattore di segreti dalle menti umane mentre queste dormono e sognano. Cobb usa un timer che permette a gruppi di persone di partecipare a sogni condivisi, ingannando dall'interno il loro pensiero, e quindi il sogno, che è frutto del pensiero. Il fine è quello di carpire informazioni segrete che altrimenti non sarebbero mai rese note.  Il potente affarista Mr. Saito recluta Cobb perché innesti nella mente di Robert Fischer, giovane erede del rivale d'affari di Saito, l'idea di spartire il suo impero economico alla morte del padre. Estrazione e innesto di idee sono quindi le due possibili operazioni che un uomo può esercitare su un altro uomo. Ma sono estremamente difficili, e rischiose. Il team di Cobb elabora quindi tre affascinanti livelli di sogno, che non sono proiezioni metafisiche, ma empiricamente percettibili. Il film è uno dei più belli - e mi limito a usare questo banale aggettivo - mai visti, e #busilliblog vi invita a godervelo. L'unico punto su cui non concordo è quell'"estremamente difficili": se innestare un'idea fosse così difficile, non vedrei come l'Isis abbia nuovi seguaci in tutto il mondo, e ogni giorno che passa. Ma sorvoliamo.

Su cosa si è concentrato il discorso di Nolan? Sulla grande ambiguità del film: una trottola. Un oggetto fondamentale per la missione di Cobb è il totem, oggetto di uso comune con caratteristiche conosciute al solo possessore, che è utile per fargli capire se si trova nella realtà o nel sogno di qualcun altro. Il totem di Cobb è, appunto, una trottola. Se la trottola vacilla e si ferma, Cobb è nella realtà, se continua a ruotare è nel sogno. L'ultima scena vede Cobb riabbracciare i suoi figli (e non vi dico come e perché): la telecamera si sposta sulla trottola che vortica sul tavolo e... taglio nero. 

E non si sa se Cobb è rimasto nel sogno o se quella che vediamo è la realtà. 

Nolan svela il dubbio. E tiene un discorso apparentemente semplice, ma di grande spessore filosofico, perché va ad abbattere il dualismo platonico, quella falsa distinzione fra il paradisiaco del sogno e il bigio della realtà. Dice:
"Come da tradizione, durante questi discorsi, generalmente vi si invita a “seguire i vostri sogni”, ma io non lo farò. Io non ci credo. Desidero che voi inseguiate la realtà. Mi sembra che, col tempo, in qualche modo abbiamo iniziato a guardare alla realtà come alla cugina povera dei nostri sogni. Voglio chiarirvi il fatto che i nostri sogni, le nostre realtà virtuali, queste astrazioni che noi amiamo e di cui ci circondiamo, sono sottoclassi della realtà" e ancora: "Le persone si interessano sempre a questo dilemma: cosa sia o non sia la realtà. E io vi dico: la realtà è l'unica cosa che conta." 

Che abbracciasse i figli nel sogno o nella realtà, insomma, poco importa: la realtà è una, molte le rappresentazioni (che sono pur sempre reali). Nolan invita a rimanere coi piedi per terra e in terra ci mette anche i sogni, che sono il sintomo reale di una realtà (in quel caso il dolore per l'assenza dei figli). Inception non è più The Truman Show, ma è un film (fantascentifico finché si vuole) che mette al centro l'uomo e le sue idee. Idee terrene, non più iperuraniche. Idee materiche, tanto materiche da poter essere estratte o innestate come si fa con un seme o un chiodo.
E questo significa beffarsi della filosofia platonica. 

sabato 2 gennaio 2016

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: MARIA LUISA SPAZIANI



di FRANCESCO GALLINA


La poesia che oggi #busillisblog vi propone è un inno al fare. Il mondo descritto lapidariamente da Maria Luisa Spaziani è una palla di cera su cui ogni uomo, se lo vuole, può imprimere la propria traccia, un'orma indelebile destinata a restare nella storia, o più semplicemente nella vita quotidiana. L'indifferenza non è il non interessarsi a tutto, come molti la intendono, ma il non interessarsi a nulla, il lasciarsi morire senza pulsioni, nell'afasia, nella malinconia, nella paralisi della noia. Nasciamo senza finalità, ma possiamo dare un fine alla nostra esistenza. Il mondo è un pongo che aspetta di essere plasmato. Noi siamo i suoi demiurghi.


L'INDIFFERENZA È INFERNO SENZA FIAMME 

da La stella del libero arbitrio, Mondadori, 1986

di MARIA LUISA SPAZIANI




Lucio Fontana, Taglio su tela





L’indifferenza è inferno senza fiamme.

Ricordalo, scegliendo tra mille tinte il tuo fatale grigio;

se il mondo è senza senso, solo tua è la colpa.

Aspetta la tua impronta

questa palla di cera.