mercoledì 30 dicembre 2015

L'INSENSATEZZA DEL CAPODANNO


di FRANCESCO GALLINA


AVVERTENZA: Il seguente post è ad alto tasso di impopolarità. 


Ma quanto  stupida e insensata è la Festa di Capodanno? 

Non ci avete mai pensato? Celebrare l'Anno Nuovo è quanto di più insensato vi sia. Perché? Perché è il risultato di una credenza religiosa nel vero senso della parola, cioè relativa a qualche cosa che è metafisico, e quindi non esiste. Che cosa si celebra? L'anno nuovo? No, si celebra la sciocca illusione che un anno nuovo possa portare più fortuna, amore, benessere. Come se il trascorrere del tempo migliorasse la qualità della vita. O come se dipendesse dall'anno nuovo la nostra vita. Insomma, in un mondo che sbandiera il proprio ateismo, casca l'asino proprio su quanto di più invisibile e inesistente c'è: il credere che il miglioramento della nostra esistenza derivi dallo scorrere di una lancetta. 

Il Capodanno è un patetico residuo leopardiano. Speriamo arrivi, perché tutto cambi, ma il giorno seguente siamo solo il fiacco risultato di una notte di bagordi, passata spesso a ingolfarci di musica orrenda ad altissimo volume. E ricomincia la routine. Quello che farà veramente la differenza non sarà la numerologia, il passare del tempo, la disposizione degli astri, ma la nostra volontà, il nostro essere disponibili al cambiamento, partendo da noi stessi, non dalle alte sfere. Che quelle sono alte, irraggiungibili e noiose. Politiche o religiose che siano.

Il Capodanno è una triste, tristissima nenia. Per chi vive da solo, per chi è all'ospedale, per chi crede - perché il Capodanno è una religione, ricordate? - che il 31 dicembre sia la Sacra Festa del divertimento, del godimento sfrenato. E gli altri giorni dell'anno? Quelli no: al massimo si vivono in attesa del 2017. Il Capodanno, insomma, è una gran baggianata travestita di felicità. 

Tutto questo, per dire poi cosa? Che non è lecito divertirsi? Certo che no. Basta che il divertimento non sia stabilito da una data, un appuntamento cosmico, ma sia dato dal civile incontro di persone che usano le loro mani per lavorare, fare, creare, e non se le sfracellano per un esplosivo mal gestito (in media 200.000 casi di ricovero all'anno). Persone dotate di quel buon senso che fa piacere e che non viene dall'alto dei cieli, ma da un cervello dotato di intelligenza. Piacere, quello vero, non quello del "strafacciamoci di coca" o dell'incontenibile conato di vomito dopo 20 drink. Quello è il divertimento dei miseri, la goduria degli stolti. 

E allora, #busillisblog vi augura un buon 2016, sì. A voi lettori (passati, presenti e futuri), fedeli o passeggeri, che mi avete seguito in questi primi sei mesi di vita politically-scorrect. Ma sarà come dire "buon 2015", perché tanto non sarà quel 6 a cambiare le cose. Eppure Agostino ci credeva, quando scriveva che "senarius numerus perfectus est". Quella lancetta che segnerà il 2016 non sarà altro che una lancetta, il battito di un ciglio, non certo un simulacro pagano, un feticcio angosciante.

Il Capodanno mi ricorda un po' il '68: grande baldoria per il nulla assoluto. Basta aprire un qualsiasi libro di storia e vedere che la storia è bella senza grandi illusioni. E scoprire, magari, che le lenticchie sono squisite se accompagnate da purè e zampone. Senza nessun altro condimento. Senza nessun'altra vana scaramanzia. Perché il Capodanno è anche questo. Soprattutto questo. Per questo anch'io, come Gramsci, odio il Capodanno.

martedì 22 dicembre 2015

LA SCUOLA STRACCIONA: NOTE SUL DECORO SCOLASTICO



di FRANCESCO GALLINA




La moda dello "studente povero" è un patetico residuato bellico sessantottino, come ne sopravvivono molti nella scuola italiana di oggi. Le assemblee, ad esempio. O la tiritera della famiglia che non può permettersi i libri, ma l'I-phone6 sì, sai com'è. Eppure, se si è davvero poveri, basta un Nokia1616 a soli 30 euro. Tra i presunti poveri ci sono quelli che vanno a scuola con i jeans stracciati. La moda del pezzente va alla grande, e lo straccio fa figo. Lo strappo, poi, ricorda un po' l'atto del trasgredire, l'essenza della rivoluzione: strappare. Ma non è più tempo di rivoluzioni, perché quelle che si sono fatte non hanno portato a molto (tranne quella industriale). Il Sessantotto - o meglio, il Lungo Sessantotto - non solo è stato fallimentare, ma ha rovinato la scuola dall'interno. 

Insomma, dove andiamo a parare? Alla notizia uscita ieri che vede il preside del liceo Roiti di Ferrara indire la crociata contro la moda stracciona: "Non chiedo cravatte e tailleur ma abiti normali, senza rotule sporgenti o pantaloni squarciati." e, sarcasticamente, aggiunge "Si è passati da tagli e scuciture a lacerazioni e sbrindellature di tali dimensioni che viene da chiedersi se siano reduci da un disastro aereo o da un incontro ravvicinato con una bestia feroce”.

Lo strappo non è segno di povertà, ma ha un costo superiore al normale e umano pantalone, sempre dignitoso, sempre chic. Che #busillisblog si sia dato alla moda? Macché! Né look né moralismo: quello che ci contraddistingue è un leggero, quasi impercettibile, sussulto di dignità che vorremmo penetrasse nelle aule delle scuole italiane.  

Non fosse chiaro, andare a scuola è come andare a lavoro. Lo studio è lavoro. Lavoro non retribuito in denaro, è vero, ma fondamentale esercizio mentale, pratico e teorico. Premesso che ognuno può fare quello che più gli pare e piace, in piena libertà, è anche vero che la libertà non è anarchia allo sbando. Se un cameriere di un ristorante stellato vi servisse con un lobo sfondato, i pantaloni stracciati e pezzi di intimo vedo-non-vedo, cosa pensereste? Può essere la persona più buona al mondo, ma non ha la decenza, il buon gusto o, più semplicemente, il rispetto. Non nei confronti di sé stesso, ma del pubblico con cui si relaziona. I docenti, oltre che a sparare nozioni, dovrebbero educare al mondo del lavoro e fare finta, per un momento, che sedia e banco siano per i ragazzi un posto di lavoro. La fola dell'abito che non fa il monaco è una fola, appunto. L'abito è tassello fondamentale dell'identità di una persona: da come ti vesti, come da come mangi, posso decifrare buona parte della tua personalità. Lo stesso vale da come mangi e da come parli. Il jeans strappato, come la minigonna e la riga del culo in bella vista appartengono alla miseria di testa, e chi lo permette è complice del degrado. Sociale? No, umano. La scuola non è un non-luogo ma spazio d'incontro, di relazione, di educazione alla civiltà e al decoro.

Ogni sede pretende il suo abito e il suo linguaggio: vestirsi, d'altronde, è un modo come un altro per lanciare messaggi. Lo straccio si addice ai barboni ed è perfetto per pulire i pavimenti e gli orifizi. Chi vuole rendere la scuola un ano di indecorosa ignoranza - che va anche oltre l'abito, s'intende - non è degno della scuola. La scuola è una straordinaria opportunità di umanità: le bestie non vi fanno parte (o non dovrebbero). Sarebbe ora di insegnarlo. Ai genitori, si intende.


lunedì 21 dicembre 2015

QUANDO LA POESIA SI FA LUCE: MARCO NEREO ROTELLI



di FRANCESCO GALLINA


Marco Nereo Rotelli, Installazione in Piazza della Pilotta, Parma, 2014.


Lo scorso 2014 ci aveva deliziati con la poesia del compianto Pierluigi Bacchini, di Alberto Bevilacqua e dell'indimenticato Attilio Bertolucci. Allora, ad essere illuminata durante le festività natalizie, era la Pilotta, un'ampia tela di mattone su cui proiettare le sue installazioni luminose. Quest'anno, Marco Nereo Rotelli colloca la sua installazione nel bel mezzo di Piazza Duomo, dove a fungere da superficie pittorica sono le facciate della Cattedrale e del Battistero. Artista di livello internazionale che ha illuminato con le sue opere d'arte le più belle città italiane, europee ed extra-europee: dalla sua Venezia a Genova, da Milano a Mantova, da Parigi a Chicago. i lavori di Rotelli sono autografi: è sua la grafia, unica, riconoscibile per i suoi arabeschi, i suoi caratteri cuneiformi, quasi primitivi. L'ancestralità e contemporaneamente la matericità della parola sono  le protagoniste assolute, creando un originale connubio fra arte figurativa, poesia e luce, elemento astratto reso tangibile nel suo elaborato significante, e interessante per il suo profondo significato. La parola, di per sé, è strumento potente, ma quella poetica si fa direttamente luce, luce atta a portare a galla significati reali eppur reconditi, che solo uno occhio attento sa decifrare: i grandi poeti, che sono anche grandi pensatori, ce lo insegnano. Nereo Rotelli usa la luce come Ungaretti l'inchiostro: poco, pochissimo, ma straripante di senso sul foglio bianco. La sua è una forma d'arte che vuole offrire allo spettatore-lettore sensazioni stranianti e nuovi spunti di riflessione.
Di una lirica, l'artista seleziona solo poche parole, quanto basta per "inciderle" o farle fluire nel contesto urbano, che viene così rivitalizzato e riqualificato, mostrato sotto una luce - è il caso di dirlo - diversa. Nel nostro caso, la poesia "Alla vita" di Mario Luzi, un gioiellino fra reminiscenze occitaniche e immagini quotidiane, contenuto in La barca, il cui manoscritto è esposto al Museo Diocesano per l'occasione. È il "viso d'Iddio caldo di speranza" a germogliare sul centro della facciata, come una preghiera:

Amici ci aspetta una barca e dondola
nella luce ove il cielo s'inarca
e tocca il mare, volano creature pazze ad amare
il viso d'Iddio caldo di speranza
in alto in basso cercando 
affetto in ogni occulta distanza
e piangono: noi siamo in terra 
ma ci potremo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
come rose dai muri nelle strade odorose
sul bimbo che le chiede senza voce.

Per il turista è uno spettacolo curioso, per chi vive da sempre in città e la frequenta ormai con sguardo assonnato, è un ottimo incentivo a fermarsi e ammirare le bellezze di un Duomo ormai millenario (risale al 1106) riutilizzato in chiave contemporanea.

#busillisblog appoggia da sempre i progetti artistico-culturali ibridi e finalizzati a risvegliare le potenzialità della parola poetica nell'atmosfera alienata della città. Anche dall'asfalto, anche da una crepa, anche da una panchina, anche da un muro può nascere poesia. Non siamo più nel tempo delle bucoliche: i poeti bucolici sono quanto di più fuori luogo vi possa essere. La poesia deve farsi altro, diventare scultura, architettura, città, metropoli. Se poi la poesia è proiettata su altra poesia, il risultato è ancor più affascinante. D'altronde, poiesis non indica solo il produrre poesia, ma il fare artistico, plasmare la materia grezza o astratta - la luce, in questo caso - per farne qualcosa di nuovo, inedito.


Marco Nereo Rotelli, Clara Lux, Parma, 2015



sabato 19 dicembre 2015

UN POETA A CASO MA NON TROPPO: ANTONIO PORTA


di FRANCESCO GALLINA


Per la consueta rubrica poetica del sabato, #busillisblog vi propone una composizione di Antonio Porta - voce notevole dei Novissimi - che fa dell'oggetto un caposaldo della sua poetica, accostando  in modo straniato oggetti urbani, minerali, animali e umani. Nessuna metafisica: solo materialità inerte zoomata grazie a un linguaggio vivace e violento, che destruttura il corpo, disgregandone la percezione. Una realtà così evidente che ci appare altra, aliena.
Accompagniamo il tutto con un calzante dipinto dell'espressionista austriaco Alfred Kubin.



LA PALPEBRA ROVESCIATA
di DI ANTONIO PORTA (1960)



Alfred Kubin, Beyond the other side (1907)


1.
Il naso sfalda per divenire saliva il labbro
alzandosi sopra i denti liquefa la curva masticata
con le radici spugnose che mordono sulla guancia,
ragnatela venosa: nel tendersi incrina la mascella,
lo zigomo s’impunta e preme con la tensione dell’occhio
contratto nell’orbita del nervo fino in gola
percorsa nel groviglio delle corde dal battito incessante. 


2.
Il succo delle radici striscia lentamente per le vene,
raggiungendo le foglie fa agitare, con la scorza che gonfia
cresce la polpa del legno, dilata le sue fibre
e gli anelli che annerano e incrinano pietrificati e un taglio
netto guizza sul tronco maturo come colpito da una scure. 


3.
I bruchi attaccano le foglie premono col muso,
rodono l’orlo vegetale mordono le vene dure
e lo scheletro resiste. Sbavano il tronco, deviano,
scricchiola la fibra meno tenera, ingurgitano il verde
inarcano le schiene bianche, l’occhio fisso nell’incavo:
fan piombare gli escrementi giù dai rami, si gonfiano,
riposano sullo scheletro sgusciato, distesi sul vuoto masticato. 


4.
Le fibre della tela distesa lungo i vetri sulla strada
rigata da molecole di nafta lentamente calano
e inguainano il ferro e il legno, roteano nel soffio dell’aria
caldo gonfiano la molle superficie, graffia e lacera la trama,
i fili si torcono e il foro si spalanca, nello squarcio
condensa viscido molecolare, la vetrata aderisce al cancro della tela.



martedì 15 dicembre 2015

L'INFANZIA ARTIGIANALE: IL CASTELLO DEI BURATTINI DI PARMA




di FRANCESCO GALLINA






Romano Danielli è solo uno degli ultimi grandi burattinai italiani. Non è l'unico. Presini, Vignoli, Bertoni, Rizzoli sono solo alcuni dei primissimi - e dimenticati - artisti vissuti fra '700 e '800, che hanno fatto del burattino una forma d'arte e di artigianato indirizzata ad un'infanzia popolare, attaccata alle cose e alla loro vivace matericità. Un'infanzia lontana da Peppa Pig e da Violetta, un'infanzia che si divertiva col meglio che la commedia dell'arte metteva in scena. D'altronde, burattini e marionette che cos'altro sono se non dei muti pezzi di legno? E se, pezzi di legno sono, non è di legno la loro anima, che li guida sapienti alla ricerca di un applauso strappato a bambini (e adulti) gaudenti davanti a quello che, all'apparenza, sembra poco, e invece è arte. Arte nel senso di artificio e nel senso di artigianalità, fra creatività e sapienza.

La tradizione burattinesca rivive in tutto il suo fascino al Castello dei Burattini di Parma. Nato nel 2002 nelle stanze rinascimentali dell'ex convento di San Paolo, è stato fortemente voluto da Giordano Ferrari, fondatore della compagnia attiva ancora oggi. Il piccolo Museo è il risultato della confluenza di un ricchissimo Centro Studi che raccoglie ben cinque fondi: Giordano Ferrari, Franco Cristofori, Amilcare Adamoli, Gruppo 80 e Don Moroni. Disponibile anche un patrimonio librario specialistico, dotato anche dei copioni degli spettacoli targati Ferrari, e supporti informatici. Fra "buratterie" e "marioteche", il Castello dei Burattini offre,
lungo le sue cinque sale, un percorso storico che va dai prodromi con Cavallazzi fino al recente Gruppo 80 di Perria e Valenti (allievi dei creatori di Topo Gigio), passando attraverso Podrecca, Yambo e, naturalmente, Italo Ferrari, capostipite della compagnia parmigiana che, nel 1914, crea il burattino che più di tutti racchiude l'essenza della parmigianità: Bargnocla, il burattino coll'immancabile bernoccolo a palla in testa. Un tipo grottesco, con la testa fra le nuvole. Cosa ci avrà mai voluto dire il caro Italo? A parte gli scherzi, con Italo Ferrari nasce un gruppo di burattinai che, ad oggi, si rivelano allo stesso tempo registi, attori, scenografi, costumisti e persino musicisti.

Curiosi e di grande pregio artistico molti degli esemplari conservati, che permettono di "toccare con occhio" l'estrema cura nell'intarsio e nel dettaglio, l'uso variegato delle stoffe e dei colori. Si va da Gianduia a Florindo, da Brighella a Fagiolino, da Arlecchino ai molteplici diavoli che popolano le teche. Non ci sono solo burattini, ma anche marionette e piccole, vere, chicche: quella che abbiamo apprezzato di più è stata la teca dedicata al rimpianto universo Mediaset attento al mondo dell'infanzia, fra anni '80 e '90. Chi troviamo? Five, Ambrogio e... Uan.  Ve lo ricordate, Uan di Bim Bum Bam? Nella nostra anima si è aperta una voragine: la chiamano nostalgia.

Tutti pronti, tutti pronti 
che comincia 
Bim Bum Bam
sempre pieno di ricordi 
e col vostro amico Uan!



sabato 12 dicembre 2015

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: NANNI BALESTRINI



di FRANCESCO GALLINA



Per la nostra consueta rubrica poetica del sabato di #busillisblog, Nanni Balestrini ci regala una vivacissima poesia di ambientazione postale, dove la posta diventa non luogo popolato da presenze nevrotiche e scalmanate. Una curiosa antropologia versificata che abbiamo deciso di accompagnare con una delle foto che hanno composto la mostra fotografica "Non luogo" (Firenze, Palazzo Medici Riccardi, 2014) allestita dall'atleta olimpico e fotografo Luca Tesconi: negli ex manicomi dell'Italia centro-settentrionale, concentrazionali non luoghi per eccellenza, Tesconi indaga quel che resta di un antico e indelebile male di vivere.

FRANCESCA GENTI

di NANNI BALESTRINI



L’impiegato F. Pasquale (ufficio via Andrea Doria)
mentre si gratta il pacco con una flemma australe
e la folla inferocita si accalca allo sportello
con suprema stizza e sorriso tutto boria
annuncia: “si è bloccato il terminale”
scatenando l’ira di due vecchie impellicciate
(una nella foga si sputa la dentiera
e l’altra si fa aria con le raccomandate)
e la crisi isterica di una trans nipponica
che scaglia a terra un pacco di Natale
che si sfascia e rivela confezioni
di pasta Rummo, Agnesi e Buitoni.

La ragazza con la spesa e il passeggino
cerca di sedare il suo bambino
che urla come un’aquila preistorica
perché pretende per la cifra modica
di euro diciannove e novanta
che la madre gli compri una ghirlanda
di caramelle colorate tipo Smarties
da sgranocchiare durante l’odissea
che li separa dallo sportello C
dove la madre arriverà stremata
col colorito bianco come un cero
e davanti alla mora da pagare
caccerà il suo classico urlo nero.

Il cingalese con le rose rosse
chiede ragguagli a una vecchia pensionata
che ha un problema di mascella deragliata
e parla in una lingua incomprensibile
che cerca di ovviare con gesti universali
– esperanto di esperienze solidali –
così alla fine anche lui capisce
che non c’è trippa né permessi di soggiorno
perché oltre al terminale si è bloccato
anche quel coso che distribuisce i numeri
(per questo tutti quanti danno i numeri).

Il bimbominkia al postamat all’ingresso
armeggia con destrezza al cellulare
mentre sceglie da pantheon assortiti
i santi e le madonne da scagliare
contro quei vecchi rincoglioniti
che non sanno ancora adoperare
la carta prepagata postepay
e per concludere le loro operazioni
(e quindi poi levarsi dai coglioni)
ci mettono dai cento ai mille eoni.

Le due zingare all’angolo di fuori
guardano la falce della luna
che nel mattino azzurro adamantino
sembra il sorriso allegro di un bambino…

giovedì 10 dicembre 2015

RAPTUS: QUANDO LA PSICOLOGIA SI FA COMPLICE DEL CRIMINE



di FRANCESCO GALLINA







"Mi hanno consigliato di allontanarmi, perché l'assassino poteva essere in preda ad un raptus": sono queste le parole che i carabinieri avrebbero rivolto al vicino di casa di Mohamed Jella, nella notte in cui ha pestato a morte Alice. Siamo nel quartiere Montanara di Parma, al tempo dell'amore confuso e di uno Stato che caccia i criminali dal suolo italiano con un solo pezzo di carta in mano. Ma soprattutto, siamo nell'epoca del raptus. Tralasciando che Jella avesse sulla testa un decreto di espulsione mai rispettato e che fosse ben conosciuto delle Forze dell'Ordine (come mi sento protetto!), che cos'è questa tiritera del raptus?

Raptus deriva dal latino rapio e significa rapito. Rapito da chi? Dalla follia. E già qui c'è un problema di fondo: siamo noi i folli o è folle la follia? Perché se i folli siamo noi, la responsabilità di quello che facciamo è solo e solamente nostra. Ma se è la follia che ci insidia, allora, le cose cambiano. Se è la rabbia che, come un dio panteistico ci pervade rapinandoci la ratio, le cose cambiano radicalmente. Eccolo, il raptus.

Se ammettiamo che c'è un'essenza trasformante che induce determinate azioni, come una droga, allora la colpa di quello che facciamo non è più la nostra. O non è più solo la nostra. La psicologia nostrana e spicciola, sostenendo l'esistenza del raptus, si fa complice dei crimini più efferati e dei più audaci azzeccagarbugli che li difendono in aula di tribunale. 

Quello di cui non si tiene conto è che il pensiero non va in cortocircuito da un momento all'altro, ma degrada nell'arco del tempo, meditando. Non ci interessa sapere se la vendetta è un piatto freddo o caldo, ma che è un piatto e, come ogni piatto, ha una sua ricetta, una sua tempistica e una sua cottura. Il piatto, insomma, non si fa da sé: le grandi brigate di chef ce lo insegnano. C'è sempre del premeditato nell'assassinio. E c'è sempre una salda volontà, un piacere nel farlo (a meno che si tratti di legittima difesa). Che poi, messa in pratica, tale volontà porti al pentimento, questo è un altro paio di maniche. E non è sempre detto: Franzoni docet
Il puzzle può essere semplice e affrettato come nel caso di Jella, oppure architettato con sagacia, come l'Isis dimostra di fare quotidianamente. Ammettere che Jella ha ucciso per raptus è un po' come dire che i kamikaze si fanno esplodere a caso, così, quando gli salta il ghiribizzo. 
La psicologia ha teorizzato una fallacia logica facendola passare per verità. Al di fuori che nei cartoni animati, il raptus non esiste.

sabato 5 dicembre 2015

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: EUGENIO MONTALE


di FRANCESCO GALLINA


Per la consueta rubrica di #busillisblog abbiamo scelto Corno Inglese, la seconda poesia di Movimenti, la prima sezione che compone Ossi di seppia, e che precedentemente era uscita nella raccolta Accordi sulla rivista "Primo Tempo", nel 1922. Di quel piccolo canzoniere, Corno inglese è l'unica sopravvissuta, e ci attesta l'amore di Montale per la musica e, più in particolare, per gli strumenti orchestrali: d'altronde, Montale intraprende in età giovanile lo studio del canto lirico e sarà attivo critico musicale durante tutta la sua esistenza. 
Non a caso, fra le altre poesie disperse annoveriamo Violini, Violoncelli, Flauti-Fagotto, Oboe, Ottoni.



CORNO INGLESE

da OSSI DI SEPPIA (1920-1927) 
DI EUGENIO MONTALE 

Il vento che stasera suona attento
- ricorda un forte scotere di lame -
gli strumenti dei fitti alberi e spazza
l'orizzonte di rame
dove strisce di luce si protendono
come aquiloni al cielo che rimbomba
(Nuvole in viaggio, chiari
reami di lassù! D'alti Eldoradi
malchiuse porte!)
e il mare che scaglia a scaglia,
livido, muta colore
lancia a terra una tromba
di schiume intorte;
il vento che nasce e muore
nell'ora che lenta s'annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore.


venerdì 4 dicembre 2015

DOPO L'ALBERO DI NATALE TOCCHERÀ A NOTRE DAME



di FRANCESCO GALLINA





Dove ha la testa chi ha deciso di non allestire l'albero di Natale davanti alla cattedrale di Notre Dame? Questione di sicurezza? Perché potrebbero mettere ordigni sotto l'albero? Mica sono scemi i terroristi. Credono davvero che colpiscano in un luogo così sorvegliato? Nah! I terroristi sono troppo intelligenti: folle è solo colui che li definisce folli. I terroristi sono fini strateghi; premeditano con l'appoggio del premeditatore per eccellenza: Allah. Se Allah non sbaglia, non sbagliano nemmeno loro, che ne sono i servi più devoti. Per ben due volte, in questo amaro 2015, hanno penetrato il largo e accogliente ano dell'Europa, e la Francia si è fatta prendere alla sprovvista, mostrandosi impreparata come la prima volta. Quella di Charlie aveva una la presunta giustificazione delle vignette. Ma questa? Che cos'è questa se non una dichiarazione di guerra?

Quelli, pur di essere arrestati si toglierebbero la vita: vi pare che, ora come ora, potrebbero agire davanti a Notre Dame? 

Sì. Effettivamente potrebbero agire davanti a Notre Dame. Anzi, direttamente dentro. Perché se l'albero non ha alcun valore strettamente legato al Natale cristiano, Notre Dame lo ha. L'Isis non uccide solo l'uomo, ma anche i suoi manufatti, i suoi migliori prodotti. L'Isis uccide la scienza, perché per l'Isis conta solo la metafisica, cioè la scienza dell'aldilà, cioè la non-scienza. L'Isis è l'incarnazione del Futurismo: "aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali" è il suo obiettivo, volto al fine di eliminare "musei, biblioteche, accademie". Tommaso Marinetti era un eccellente islamico. Non avrebbe fatto fuori l'albero di Natale, ma Notre Dame sì. Per capire l'Isis bisogna studiare il Futurismo.

Notre Dame rappresenta il cristianesimo, e per di più quello medievale, più lontano e allo stesso tempo più vicino ideologicamente all'Islam. Ma, oggi, dopotutto, non è altro che la chiesa della capitale, un grosso crocefisso gotico. Oggi togliamo l'albero di Natale per problemi di sicurezza (?). Domani toccherà a Notre Dame, simbolo di un Dio che si è fatto uomo, impossibile da concepire per Maometto e i suoi seguaci, per cui Dio è invisibile e irrappresentabile. Dico Notre Dame per dire qualsiasi luogo di culto cristiano. E non sarà più un crocefisso strumentalizzato nelle aule italiane, ma il genio dell'umana sapienza. Per toglierla, l'umanità, non servirà altro che polverizzarla: a Palmira ce l'hanno fatta. Da noi è questione di tempo. E se non saranno le bombe al tritolo, saranno quelle ideologiche. Colonizzare le idee è più facile di quel che si pensi: non c'è Inception che tenga. 

mercoledì 2 dicembre 2015

LA MIGLIORE OFFERTA: ECHI E CITAZIONI ARTISTICO-LETTERARIE


di FRANCESCO GALLINA





Sul nuovo numero della rivista accademica Parole Rubate. Rivista internazionale di studi sulla citazione diretta dal professor Rinaldo Rinaldi (Università degli studi di Parma) è uscita l'analisi citazionistica che ho compiuto sull'ultimo splendido film di Giuseppe Tornatore.

Opera raffinatissima, La migliore offerta è un tripudio di echi e citazioni artistico-letterarie, che trovate qui analizzate.

lunedì 30 novembre 2015

VA' PENSIERO: UNA DICHIARAZIONE DI SOTTOMISSIONE



di FRANCESCO GALLINA





L'ode scritta da Temistocle Solera per l'opera verdiana del 1842 è un testo di per sé dignitoso e musicato divinamente - anche se Rossini lo definì una "cavolata" - ma oggi strumentalizzato politicamente e ideologicamente.

Il Va' pensiero è ovunque. Come il prezzemolo, ce lo ritroviamo anche nel luogo dove avrebbe meno senso in assoluto: la commemorazione delle vittime della strage al Bataclan. Evidentemente, chi lo usa come inno patriottico si basa sul "sentito dire", non certo deve averne mai compreso il vero significato. E non ci vuole un genio della critica per farlo. 

Spieghiamoci meglio: da chi è rappresentato il coro? Da schiavi. E disperati, per lo più. Sono gli ebrei che patiscono e ardono nel loro cocente dolor. Perché? Perché sono ridotti in schiavitù nell'Egitto governato da Nabucodonosor. Non per altro il coro si trova nel terzo atto del Nabucco. Verdi propone il tema della diaspora, e così lo farà in molte altre sue opere, dall'Ernani al Macbeth, dall'Alzira ai I vespri siciliani. Il pensiero è la memoria del suolo natio, il “suolo natal” di cui l’esule ricorda con nostalgia i “clivi” e i “colli”, le rive del Giordano, le torri di “Sionne”. Si tratta di una visione, un'apparizione sognante delle proprie terre perdute, che viene riflessa nella dimensione di un possibile ritorno. La condizione dell'apolide è descritta alla perfezione: l'esule trae conforto dal ricordo, ma è un'arma a doppio taglio, perché prova allo stesso tempo l'atroce dolore per la distanza fisica e geografica. Si tratta, insomma, di un pianto lacrimevole proclamato con ritmo sincopato e concluso in sordina. 

Bene. Se io decido di usare questo inno nel giorno in cui si ricordano le vittime di terroristi islamici, cosa ne posso dedurre? Che la Francia non è più libera e che è schiava dei terroristi islamici, che non è più patria e che piange un passato che, forse, non ritornerà più. Quindi siamo di fronte ad una dichiarazione di sottomissione. Perfetto. Aggiungiamoci che Islam significa sottomissione è il gioco è fatto. All'occhio del contemporaneo, il Va' pensiero, può essere letto anche in modo molto più letterale, eppur comunque veritiero. Se intendiamo il pensiero freudianamente (e non come vaga memoria), il pensiero che se ne va è proprio quello dello schiavo che è costretto ad abbandonare il proprio pensiero per adeguarsi a quello del conquistatore. D'altronde, la Francia, conosce bene il terrorismo e parte del suo pensiero migliore lo ha visto cadere sotto la ghigliottina di uno dei terroristi più radicali, eppur osannati: Robespierre.

Cosa dedurne? Che chi usa il Va' pensiero come simbolo di libertà manifesta invece la propria sottomissione, il proprio stato di derelitto, ostentando la propria fragilità nei confronti di chi vuole farne uno schiavo. Quando le ragioni di un unico Dio padrone vogliono imporsi sul singolo individuo (elemento caratteristico dell'Islam), la prima cosa che se ne va è proprio l'unico elemento che distingue l'uomo dalle bestie: il pensiero.

sabato 28 novembre 2015

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: PIER PAOLO PASOLINI




di FRANCESCO GALLINA



Di Pasolini è stato detto di tutto. Chi lo dipinge come un santo laico, chi come un ignobile pederasta. 

Noi non diciamo niente. 
Per la consueta rubrica poetica del sabato di #busillisblog, ci limitiamo ad offrire quella che secondo noi è una delle sue più belle poesie pasoliniane, tratta da La religione del mio tempo, Garzanti, Milano (1961), e accompagnata da un dipinto di Antonio Berni. Sono endecasillabi crudi, sporchi, franti, imperfetti, come il sottoproletariato romano. Come Pasolini.



Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano

di PIER PAOLO PASOLINI
 

Antonio Berni, Manifestaciòn (1934)


Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c'è come l'aria d'un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
che trapela il suo umido, rosso,
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n'hanno, usano lusinghe
abbiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce
piene.
Se lavorano - lavoro di mafiosi
macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani - avviene
che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene...
 
Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un'anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati...
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l'angosciosa scommessa,
a dirsi: "È fatta," con un ghigno di re...
La nostra speranza è ugualmente
ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla 
storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.