Inside out sarà un film figo quanto si vuole, esteticamente bello, pupazzoso, divertente, variegato e soprattutto a dimensione familiare, per il bambino di 8 anni come per il nonno di 90. Questo film ha tutte le qualità tecniche, registiche, creative che un film di animazione deve avere. La Pixar, in questo, si rivela da sempre una garanzia. Ma... #busillisblog fa di mestiere il bastian contrario. E fare il bastian contrario non è facile, perché si va contro il gusto delle masse, risultando talvolta antipatici. Però, siccome per questo film sono stati scomodati dalla stampa i nomi di Freud e Jung - come se poi i due fossero simili - arrivando persino a sostenere che questo film spazza via la psicanalisi, psicologia e tutto il resto - perché per le masse psicanalisi e psicologia sono la stessa cosa -, tentiamo allora una semplice analisi. Semplice e onesta. Ci basterà il trailer. Se non l'avete già fatto, guardatelo attentamente.
Avete fatto? Bene, ora osservate questo video. Vi spiegherò più avanti di cosa si tratta.
Ritorniamo al film: c'è una bambina, sua mamma e suo papà.
Le sue emozioni sono esseri che si muovono nella sua testa: hanno logica e parola. E quindi? Le emozioni sono voci dentro a cervelli dalla struttura meccanica: vi troviamo display, pulsanti, quadri elettronici. L'idea di un cervello meccanizzato non è per nulla originale come potrebbe sembrare, ma rivela una marcata ipoteca deterministica, cioè lascia passare la vecchissima e malsana idea che non siamo noi a decidere, ma il nostro cervello decide per noi. Se permettete, non è cosa da poco. Il cervello è una massa, noi pensiamo grazie al cervello, ma non è il cervello che pensa e agisce per noi. Nel film, invece, è palesemente così: Gioia, Rabbia, Tristezza (il pupazzo più ciccioso e carino), Disgusto e Paura guidano i protagonisti. Pensateci un attimo: i personaggi del film è come se fossero marionette gestite da esseri interni, ma alieni. Se non partissimo da questo punto, non capiremmo lo scopo primo del film: farci conoscere le emozioni. Che sono nostre, intime, difficilmente classificabili, ma ci vuole un film per farcele conoscere. Che siamo noi, in realtà, a dare vita alle emozioni, ma il film in questione ci dice il contrario: sono le emozioni che ci tengono in vita. Il che è semplicemente assurdo.
Guardiamo la questione sotto un punto di vista filosofico: se io uccidessi un uomo, chi è che lo ha ucciso? Io o le emozioni? Sono le emozioni che dirigono l'azione dell'uomo o il pensiero? E il pensiero coincide con le emozioni? E le emozioni coincidono con i sentimenti? Stando al messaggio del film, il raptus è ammesso, perché il raptus (un'invenzione degli psicologi) sarebbe un'azione dettata da una fulminea emozione (negativa, evidentemente) provata nei confronti di qualcuno: il raptus, infatti, è sempre una valida attenuante: si responsabilizza l'emozione, non il soggetto, se per soggetto intendiamo coincidenza di io e pensiero. Dove per pensiero intendiamo un flusso che nulla ha a che vedere con organismi computerizzati ed elettrici. Quella del determinismo è una montatura filosofica che ha radici antichissime: potremmo farlo partire dallo zoroastrismo (anno 1000) per ritrovarcelo tra i piedi ancora nello scientismo contemporaneo di Hawking e Mladinow. In mezzo c'è stato il positivismo, Darwin, Taine, Hitler. E c'è stato anche Fritz Kahn, fisico tedesco autore del semisconosciuto Grande Libro della Natura, di cui riportiamo la recente copertina che si ispira alle sue splendide (ma inquietanti) illustrazioni in bianco e nero. Da questi disegni è stato elaborato il secondo video che vi ho mostrato. L'idea di Inside Out è solo più colorata e "bambinizzata", ma è la stessa, identica, medesima di Fritz Kahn.
Cosa vuol dire determinismo? Che l'uomo non è dotato di libero arbitrio, ma c'è qualcosa out (Dio, Provvidenza) o inside (Natura, Razza, Ambiente) che determina tutto ciò che fa. E lo determina perché segue una logica altra rispetto a quella dell'uomo. Quindi l'uomo è uno schiavo o, peggio ancora, l'uomo si comporta come una macchina; è una macchina.
In tutto questo, però, dov'è l'intelligenza? E l'emozione è solo impulso intrattenibile e animalesco (infatti, nel film, hanno emozioni anche gli animali)?
Forse sono solo io, ma mi è bastato il trailer per essere colto da una strana sensazione (non emozione!): di non essere più in casa mia, nel mio corpo, ma che ci siano dei diavoletti che lo governano. Non solo non è una sensazione piacevole, ma è anche psicologicamente nociva.
C'ha una bella testa. Non solo i capelli, un cespuglio invidiabile.
C'ha propria una bella testa, Gio, perché delle parole sa farne buon uso, e a noi di #busillisblog piace chi sa fare buon uso delle parole. Ci piace chi sa dare alle parole, soprattutto quelle logorate dall'uso comune, nuovi sensi, nuove sfumature . Chi sa giocare con i significanti per partorire significati ricchi di spunti. Lo sa il caro Nanni, ma lo sappiamo anche noi di #busillisblog: le parole sono importanti, troppo importanti. E anche i giochi.
Nella mia ricerca di buoni talenti, mi sono imbattuto da tempo nell'attività di Gio Evan: poeta, cantautore, artista di strada.
Una bellissima intervista per inaugurare la settimana.
Da non perdere.
Benvenuto su #busillisblog, Gio! I nostri lettori
affezionati, ormai, sanno che voi poeti di strada,
il più delle volte, amate adottare pseudonimi. Nel tuo caso, però, non si
tratta di un "semplice" pseudonimo...
Ciao e grazie carissimi di Busillisblog, ciao Francesco.
Nel mio caso, ma credo sia anche il caso di chi frequenta la
strada come galleria artistica, il passo a crearsi uno pseudonimo è breve e
spontaneo. Trattandosi il più delle volte di arte non autorizzata, la prima
forma di tutela è quella dell'anonimato: scrivere nome e cognome su un muro può
risultare una mossa azzardata, almeno qui in Italia, dove da molti non siamo
visti come gente “per bene”. E allora, almeno per me, è stato istintivo cercare
un nuovo battesimo. Il nome Gio Evan nacque a Capilla del Monte, in Argentina,
da uno sciamano Hopi durante una cerimonia di peyote. Mi mise due dita al
centro della fronte e mi disse “tu sei Gio Evan”. Quando chiesi spiegazioni a
riguardo, mi disse che con il tempo avrei trovato i
miei significati. Vissi tre
mesi con lui, in una grotta sui colli di Capilla, vivevamo mangiando poco, un
pasto al giorno che consisteva in frutta, riso e pane. Mi insegnò la medicina
energetica, come recuperare i frammenti di anime perse, come pregare, il potere
della gentilezza, e credimi potrei continuare per giorni su questo argomento,
ma abbiamo già Carlos Castaneda. Comunque, alla fine, strinsi un'amicizia
viscerale oltre che un rapporto autentico discepolo e maestro. Lui vide in me
quella cosa che io stavo cercando di vedere in me, me la indicò un sera di
marzo, divenni felice. Continuai per il Sud America più o meno 2 anni,
attraversandola in bicicletta, a caccia di sciamani, ma in Argentina e Brasile
avvennero iniziazioni più importanti, partecipai a rituali trascendentali e mi
insegnarono molti dei loro metodi. Anche in Brasile mi fermai a vivere in un
villaggio di sciamani, anche in Ecuador capitò, ma andiamo pure avanti con
l'intervista o qui ci facciamo un libro. [sorride]
La tua biografia è un ampio e coloratissimo ventaglio di
viaggi all'estero, in Europa, ma non solo. Quali sono i luoghi che più hanno
inciso sulla tua produzione letteraria a livello tematico e contenutistico?
Quali sono i popoli e le culture con cui sei entrato in simbiosi, quelli che
più ti hanno lasciato il segno?
Ogni viaggio ha contribuito a modellare il mio stile e il
mio carattere: l'India ad esempio mi ha ispirato al virtuosismo, a essere
ermetico, mentre l'Ecuador mi ha detto ad alta voce “torna semplice”. La
Norvegia mi ha ispirato a scrivere di calore, l'Argentina mi ha insegnato a
mettere il tango nelle poesie, il Brasile a pensare musicalmente, il Paraguay
forse non mi ha insegnato nulla ma l'Uruguay mi ha detto “ce la fai”. L'India
mi ha insegnato molto, sono sempre stato spinto da una voce interiore verso il
mondo dello sciamanesimo, vivere in India mi ha portato a conoscere una razza
aliena, non conoscendo la lingua, ho passato quasi un anno in silenzio. Stare a
stretto contatto con sciamani sadhu e baba è una fortuna, poter apprendere le
loro meditazioni e le loro metodologie è una ricchezza inestimabile.
Dei tuoi viaggi parli in Florilegio passato, libro in cui
parli del tuo nomadico girovagare attraverso l'India, senza soldi e a piedi
nudi. Quanta importanza ha rivestito quell'esperienza e quali angoli e scorci
dell'India ti piacerebbe ricordare e dipingerci?
Sono andato in India per una visione avuta in Italia. In
questa visione io sarei dovuto morire il 13esimo giorno, ma presi e partii uguale.
Portai con me solo 150 euro e la mia intenzione era quella di starci un anno
preciso. L'obiettivo era quello di passare del tempo con sciamani, guru e
maestri spirituali, non mi interessava null'altro all'epoca. Arrivato in India
la prima cosa che feci, in segno di rispetto per una terra a me molto sacra, fu
quella di appendere le scarpe su un albero. Proseguii il viaggio a piedi e in
autostop, facendo ristoro negli Ashram in cambio di manodopera. Nel frattempo
cominciai a scrivere Florilegio passato, una catena di poesie virtuose e
complesse che spiegavano le visioni del momento e quello che stavo vivendo in
India. Ripeto spesso la parola visione perché è quello che è avvenuto
costantemente in India. Visioni e sogni e onironautismo e epifanie e intuizioni
che non credereste se le raccontassi. Avete presente le divinità indiane?
Ganesh, Shiva e le loro storie surreali? In india il surreale non esiste. La
forte credenza in qualcosa apre dei canali che rendono la realtà illimitata.
Quando noi crediamo, creiamo occasioni per far sì che l'incredibile si
manifesti. Se oggi sono un poeta devo molto all'India e ai suoi insegnamenti.
Florilegio passato è stato distribuito per le strade. L'atto
del distribuire personalmente le copie mi ha ricordato due figure molto
distanti fra loro, ma che hanno entrambe sfruttato questo metodo: uno è Dino
Campana e l'altro Roberto Roversi. Come la tua, la vita di Dino Campana è
caratterizzata dal viaggio: il suo è un viaggio forsennato, disperato,
vacillante, quasi per fuggire da se stesso! Il tuo, invece? Quali le ragioni
dei tuoi spostamenti? Fuggire da se stessi o ritrovare se stessi?
Saluto Dino e Roberto che so che ci stanno ascoltando.
[ride]
Florilegio passato è stato scritto tutto in India e stampato
in Italia grazie ad amici grafici. Appena tornato in Italia sono stato
frastornato per molti mesi e non avevo intenzione alcuna di lavorare per
qualcuno. Così stampai 800 copie di questo libro e iniziai a venderle in giro
per l'Italia. Viaggiavo molto facendo musica in strada con un gruppo che ora
non c'è più. Facendo musica italiana e inedita, capitava di catturare
l'interesse di qualcuno e di conoscere molto persone, con questo metodo vendevo
il disco Cranioterapia e Il florilegio passato.
Il motivo del mio viaggio fu
quello di essere arrivato a un disperato bisogno di conoscermi; volevo starmene
solo, ambivo a piangere e a non essere consolato da mani umane, bramavo sapere
il perché della vita e cosa ero venuto a fare al mondo: c'è chi la chiama crisi
esistenziale, io credo fermamente invece che si tratti di un etico dovere
spirituale, quello di frequentare se stessi nel profondo e farsi domande. Per
fare questo ho dovuto mettermi in viaggio ininterrottamente per circa 7/8 anni.
Non si può fuggire e non ci si può ritrovare. Possiamo frequentarci,
frequentare noi stessi o allontanarci, siamo anima e, una volta raggiunta la
consapevolezza che il corpo è solo un veicolo utile per esperire in questa
terra, allora si creano due entità: spirito e corpo. Il nostro spirito deve
imparare a dialogare con il corpo e così viceversa.
Sempre pensando alla figura poliedrica di Campana: c'è del
sano maledettismo nel tuo modo di porti al pubblico? Maledettismo nel senso di
anticonformismo e deciso superamento dei canoni stantii, maledettismo come
essere bohémien, essere liberi dalle pastoie della tradizione e dai canali
ufficiali dell'industria editoriale...
Credo che in me ci sia un sano maledettismo allora. Non sono
a mio agio negli standard, nei canoni, soffro a stare perfino nei discount, non
sopporto le discoteche e non riesco a parlare di motori. Per questo sono il
Capitano di una ciurma pirata dal nome “Granché” per ricordare alla vita di
essere ribelli, senza perdere la gentilezza. Ecco vedi, io ho bisogno di
giocare con me stesso, continuamente, di essere serio come il cielo e giocoso
come la terra, di credere che posso arrivare ovunque, di fare le cose da adulto
ma con la classe e l'eleganza del bambino. Le parole mantra che ripeto a me
stesso quotidianamente sono: sii improbabile, sorprenditi, fai dell'incredibile
oggi. Il lavoro che sto facendo nella mia vita, non intendo lo scrittore e
l'attore, intendo lavoro su me stesso, è quello di cambiare le carte in favola,
sbalordire, sorprendermi continuamente, dire cose che non si sentono in giro,
fare cose che non faremmo abitualmente. Ad esempio quella di parlare cambiando
le locuzioni grammaticali è parte fondamentale della mia vita come del mio
lavoro. Come ho detto prima “le carte in favola”, che sembra un gioco di parole
ma in verità ha un messaggio preciso e distinto, e se si ha voglia di
approfondire si arriva al senso, a me piace chiamarla filosofia dell'improbabile. Bisogna
approfondire la profondità, questo credo, bisogna essere seriamente giocosi,
leggeri ma potenti. Questi concetti come improbabile, inaudito, surreale, sono
concetti che ti portano a essere catalogato indubbiamente come anticonformista,
eppur io mi sento così conforme con l'universo.
In un modo o nell'altro, bisogna pur sempre fare i conti con
il passato. Quali sono - se ne hai - i tuoi modelli, le tue letture? Ci sono
correnti letterarie, letterati o filosofi verso cui mostri - o hai mostrato -
un'attenzione particolare?
Di modelli, sostantivo che non amo molto, credo di aver solo
Gesù. Chiesa e religione esclusi. Ma la sua umiltà e il suo parlare, la sua
attenzione per il prossimo, la cura che aveva nel fare le cose, è un'ambizione
che si dovrebbe avere tutti, ovviamente considero Gesù un poeta. Spostandoci
verso la letteratura, posso dirti che i due piattini della bilancia sono
Alighieri e Rimbaud. Per loro due ho un amore quasi di sangue, come fossimo
parenti, sono affezionato a loro come a dei cari, li penso come amanti e amici.
Mi piacciono molti poeti morti, che in realtà poi son vivi perché non tutte le
persone muoiono e, persone come Kerouac, Montale, Pasolini, Majakovskij, Blake,
Basho (e chiedo scusa a chi non ho citato ma sono molti) non possono morire.
Tutta via perdonami se mi dilungo, i miei uomini Maestro sono Nikola Tesla,
Leonardo Fibonacci, Pippi Calzelunghe, Federico Fellini, Yodorowski, Stephen Hawking e anche qui
ci mettiamo un etc. etc.
Quali sono le caratteristiche della tua poetica? Perché,
oggi, nel tecnologicissimo e modernissimo 2015, si dovrebbe leggere la poesia?
Le mie poesie a me piace definirle metafisiche o sciamaniche
anche se molti - e non so perché - le definiscono surreali. Sono un'avventura
nel mondo dell'improbabile, sono storie di inverosimiglianza, parlano di altri mondi,
altri corpi, nuovi amori, nuove visioni e intelletti sottili, e alla gente
piace perché tutti vi si rispecchiano. Tutte le persone, dentro sé, sanno di
essere molto più di quello che superfluamente traspare. La mia poesia non fa
altro che ricordare loro che siamo formidabili. La poesia non la si deve per
forza leggere, io non invito mai a leggere poesie, io invito tutti a essere
poesia.
Essendo assiduo lettore e studioso della poesia trecentesca,
non posso non domandarti cosa intendi per fusione fra poetica del Dolce stil
novo e Beat.
Il termine non è mio, è stato usato dal professore Mario
Blasi e dalla blogger Lucia Berdini, mamma del nostro figlio Noa, cercando di
definire lo stile del romanzo LA BELLA MANIERA, il mio secondo libro. La cosa
mi era piaciuta perché ho da sempre voluto unire il virtuosismo trecentesco con
la ribellione sana della Beat Generation. Da qui è nato il Dolce stil Beat, un
virtuosismo contemporaneo. [sorride]
Approdiamo così alla musica. Raccontaci dei tuoi progetti
musicali e di quale rapporto si instaura fra il mezzo canoro e il tuo modo di
comporre poesia. Ad ora all'interno di quale genere collocheresti la tua
attività musicale?
Ho iniziato a suonare la chitarra per il solo e unico motivo
che iniziavo a sentire la necessità di dare melodia ad alcune cose che
scrivevo. Alcune cose devono essere e si meritano di essere cantate. Ci sono
poesie che hanno voglia di saltellare ed è compito nostro dare loro vibrazioni
melodiche. Non so davvero che diamine di genere sia, è un cantautorato molto
sperimentale, dove la maestria è più sulla selezione delle parole che nella
musica.
Quest'anno hai diretto e portato in scena Oh issa – salvo
per un cielo. Oltre ad apprezzare
personalmente l'uso ironico dei giochi di parole che spesso proponi senza
scadere mai in sciatti doppi sensi, ti domando quale rapporto hai instaurato
col pubblico. Com'è salire sul palcoscenico per la prima volta?
Oh issa parla di un ragazzo che si salva da un imminente e
improvvisa apocalisse grazie all'incontro con persone immaginarie (Babbo
Fatale, il Cavallo da somma, Re Salmone) che incontra uscendo di casa. I
personaggi, tramite il gioco di parole (odio il termine ma lo uso per farvi
capire meglio) inizia ad approfondire il senso della vita, inizia a estendere
la personalità, a vedere le cose con una prospettiva diversa, il suo pensiero
diventa “vasto” entrando in armonia con tutte le dinamiche della vita,
metamorfosi che lo porterà a salvarsi. Il senso dell'opera sta nel concetto
dell'immedesimazione sacra, quella di avere il coraggio di mettersi nei danni
degli altri, di mettersi negli affanni degli altri, di moltiplicarsi, di
diventare tutto e tutti, essere ogni cosa. Salire su un palco la prima volta,
per me che ero senza esperienza e pieno di timidezza - e tra l'altro una cosa
che mai avrei pensato di fare nella vita - è stato un trauma affascinante, ci
sono andato ubriaco.
E, a proposito di ricezione pubblica e comunicazione
poetica, non possiamo trascurare la tua poesia di strada. Ti chiedo quello che
ho chiesto ai tuoi colleghi precedentemente intervistati: quali progetti, quale
la risposta del pubblico, dove e quando agisci.
In strada promuovo un concetto ben fisso che è quello della
gentilezza e della tenerezza. Le poesie sui muri a differenza dei libri che
scrivo, sono più compatte, dinamiche e molto brevi, quasi sempre sono giochi di parole o locuzioni manomesse. Agisco di notte perché tanto io non ho mai sonno,
ovunque mi trovi. Mi ricordo di aver iniziato in Francia. Lione ha la mia prima
scritta sul muro. Il pubblico si divide in due categorie ben chiare: chi le
trova geniali e chi pensa siano errori ortografici.
Con quali artisti o altri poeti di strada hai avuto modo di
collaborare o scambiare opinioni?
Al festival Nottenera di Serra De Conti, dove ho fatto
un'installazione di poesie di strada con mappa pirata e torcia, ho avuto la
contentezza di conoscere artisti come Andrea Silicati e Nicola Alessandrini,
artisti e pittori formidabili che spero di coinvolgere in qualche modo nei miei
lavori futuri, magari anche per le copertine dei libri o in qualche spettacolo.
Quest' anno sarò coinvolto nella terza edizione del festival poesia di strada,
evento che mi ha fatto conoscere grazie alle preparative, poeti come Ivan
Tresoldi e Poeti Der Trullo. Periodicamente mi sento con la poetessa Francesca
Pels e Ma Rea, con il quale ci stiamo organizzando per un attacco poetico da
fare insieme.
Concludiamo con il tuo ultimo lavoro: Teorema di un salto.
Siamo curiosi di saperne di più, su queste poesie metafisiche...
Teorema di un salto è la mia ultima fatica e terzo libro, il
secondo uscito con la Narcisuss. È nato perché avevo una paura fottuta di
scrivere del e sull'amore, mi ero sempre rifiutato di scrivere a riguardo prima
dello scorso anno, e così mi sentivo di dover rimediare. Teorema di un salto
non è il famoso salto nel vuoto o nel buio, è il salto nel pieno, è il salto
nella luce, ad occhi aperti. Il termine metafisico, anche questo non adottato
da me, sta a indicare che la poesia invita ad andare oltre, ad abbandonare i
concetti statici del realismo, ad abbattere i muri, io lo chiamo il MEMENTO
MURI: ricordati di chi mura, di chi crepa ma resta in piedi, non abbatterti,
abbattili e vai dall'altra parte. Sono per lo più poesie di amore, ma di un
amore non conosciuto fino a prima. È un amore nuovo, un amore inventato, se non
l'avessi scritto io vi inviterei alla lettura, ma datosi che è roba mia
possiamo fare che ogni sera vi chiamo e ve ne leggo una. [sorride]
Poeta, cantautore, attore, artista di strada e appassionato viaggiatore: questo è Gio Evan, che abbiamo avuto il piacere di intervistare per #busillisblog.
Per ora la casa vi offre una degustazione, ma non perdetevi la bellissima intervista di lunedì 28 settembre.
Di Bobbio ho un ricordo molto bello della mia adolescenza, a casa dei miei zii. Ci sono stato due giorni una sola volta, ma mi è entrato nel cuore: l'Abbazia di San Colombano, il Castello Malaspina, l'affrescatissima Cattedrale di Santa Maria dell'Assunta, Palazzo Alcarini e il famosissimo Ponte del Diavolo. Di lì ad innamorarsi della cinematografia di Marco Bellocchio è stato un passo: mi sono divorato tutti i suoi film, da Pugni in tasca a Bella addormentata, passando per quelli meno conosciuti e nati per caso come Sorelle Mai. Poi, ecco che arriva Sangue del mio sangue (2015), ora in concorso a Venezia 72, che già dal trailer lascia intuire un'ottima fotografia e un cast di grande levatura, Herlitzka e Timi in primis. L'unica cosa che scoccia è vedere sempre gli stessi attori, ma non le stesse location. Per chi conosce Bellocchio, sa che Bobbio e il Trebbia sono i suoi ossessivi luoghi dell'anima: bisogna accettarli così come sono. Nel trailer, il Ponte del Diavolo compare al minuto 0.26.
Bellocchio dice che questo film è una resa dei conti, ma i conti, quelli veri, non li ha fatti con l'ultima scoperta che vede Bobbio e il Ponte del Diavolo - o Ponte Gobbo - per protagonisti.
La ricercatrice Carla Glori, in collaborazione con gli Architetti Bellocchi di Piacenza (Bellocchi senza o finale, così, per non fare confusione), ha condotto una lunga e dettagliatissima indagine per dimostrare la tesi secondo la quale la Gioconda - Bianca Sforza, moglie di Sanseverino signore di Bobbio - sarebbe stata dipinta secondo la prospettiva che si poteva avere al piano superiore del Castello Malaspina e che il ponte che si vede alle sue spalle, sarebbe proprio il Ponte Gobbo.
Per accertare la localizzazione del punto di vista di Leonardo, ci si è basati su uno studio certosino del castello come appariva nel secolo XV: la studiosa teorizza che il ponte, nel dipinto, non avrebbe la caratteristica gobba stando nella prospettiva se ne poteva avere dalla finestra sulla facciata nord-est del castello: il suo spostamento un po' all'indietro nel dipinto, allineandolo meglio, troverebbe giustificazione nella necessità di farlo stare per intero nel quadro. Una comparazione del ponte Gobbo con disegni originali del XVIII secolo che lo raffigurano a cinque archi sarebbe un'ulteriore prova dell'alta compatibilità con il capolavoro leonardesco. Non solo. Secondo la Glori gli ofioliti della Pietra Parcellara, il Lago di Lagobisione, i versanti rocciosi della val Tidone, i crolli subiti dal ponte troverebbero riscontro nel paesaggio dipinto alle spalle della donna.
Benché io sia stato da sempre contrario alla mistificazione creatasi attorno alla Gioconda, benché fino ad ora ognuno ha visto nella Gioconda quel che voleva vedere, e benché questo studio resti pur sempre a livelli puramente teorici, ho trovato la ricerca estremamente suggestiva e condotta secondo criteri filologici, storici e geografici molto minuziosi e quindi, solo per questo, ammirevole. In questi casi, si spera solo che il punto di vista sia davvero quello identificato e che non si tratti di un castello di... sabbia. Se le cose stessero davvero così - ma anche se non stessero così - il prossimo film di Bellocchio è già scritto. Per Bobbio sarebbe un gran colpo di... campanilismo.
La questione della Miss che vuole vivere la Seconda Guerra Mondiale - ma tanto lei è donna e se ne sarebbe stata a casa a grattarsi le palle - apre un interrogativo mica da ridere: chi ha promosso questa ragazza? No, perché questa, a scuola c'è stata. E in qualche modo è uscita. Magari con il solito bastardo 6 politico, ma è uscita.
E non è l'unico, di interrogativo. Ce n'è anche un altro: come insegnare la storia delle Guerre Mondiali? Bastano le date? Basta conoscere due dati in croce? Bastano i dati che si trovano scritti sulle "pagine e pagine"(cit.) delle classiche antologie? Basta sapere collegare cause ed effetti? Basta conoscere nomi di città, fiumi, politici?
Sarebbe già tanto, tantissimo. Eppure, sono convinto che si dovrebbero adottare metodi di insegnamento horror. E se uno/una ragazzino/ina non dormirà per qualche notte, non importa. Se gli verrà il voltastomaco, se vomiterà, meglio ancora: si ricorderà quale effetto gli ha fatto un'immagine di guerra, guerra vera. Magari starà ben attento a non farla, da grande, o a sperare di viverci. Sarà antipedagogico, forse, ma mostrare le immagini più insopportabili delle conseguenze delle guerre, è proficuo. Sconvolgente e catartico, come quando entri per la prima volta alla Specola fiorentina, con tutti quei cadaveri di cera squarciati, spellati, tranciati. Ne rimani sconvolto o entusiasta: capisci che cos'è il corpo umano, capisci che cosa sei. Splatter? No, anatomia. Ne esci talmente entusiasta, che può venirti voglia di scrivere un romanzo, come è stato per me con De Perfectione. Ma questa è un altra storia.
Se la buona scuola deve lasciare il segno, è bene che si mostrino le foto, che sono quanto di più autentico ci sia dalla fine dell''800 ai giorni nostri. Usufruire del mezzo fotografico significa onorare chi, nello studio della storia, non si ricorda mai: la figura del fotografo, spesso ignorata vittima dei conflitti, fino ai nostri giorni (da Nahjm Ibrahim ucciso a Ramallah al piacentino Andy Rocchelli ammazzato in Ucraina).
Bisogna toccare la realtà con mano. Entrare nella storia contemporanea significa avere il privilegio di vedere il passato. Non solo le belle foto ritratto di Mussolini o Hitler, ma anche quelle tenute nascoste direttamente provenienti dai terreni bellici: il sangue, le budella, il vomito, il fango, la merda, i ciechi, gli zoppi, gli sfigurati, i mutilati.
Sarebbe istruttivo conoscere le tecniche di amputazione, ad esempio, che magari qualche testa calda pensa avvenissero in limpide sale operatorie, con i pazienti annaffiati da anestetici. E invece no: si è sveglissimi, con un blocchetto di legno fra i denti, denti che lo schiacciano fino a frantumarsi, mentre ti segano la gamba crivellata dalle taglienti lamiere delle granate.
Il compito della storia non è edulcorare e non è brutalizzare. Ma se c'è stato del brutto, è cosa buona e giusta sbatterlo in faccia alle giovani leve: è quello che mi propongo di fare quando scrivo racconti e romanzi. Non è pornografia dell'orrore: è naturalismo 2.0, e nemmeno troppo nuovo, con il solo scopo di sbattere la realtà in faccia alla gente, senza arzigogoli o nascondigli. Lo fa Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale, lo fa la Kerr in Quando Hitler rubò il coniglio rosa, lo fa Sereni nella Pietà ingiusta ("quel mozzicone di mano sulla parete"), lo fa Clint Eastwood nel film American Sniper, che non usa nessun effetto speciale: nelle ultime scene, gli attori devastati dalla guerra non sono attori, ma veri veterani di guerra. E, per di più, giovani.
La bella e scema Miss Italia è scema lei, ed è scema come la scuola italiana che l'ha partorita. E ha fatto bene, perché nella vita, più indecenza mostri (qui siamo ben oltre l'ignoranza), più sei vincente. Proponiamo di trasferirla sulla Striscia di Gaza. Anche se è donna, si divertirà. Promesso.
Ah, a proposito di bellezza. I primi, importanti metodi di maxillo-facciale risalgono alla Prima Guerra Mondiale. Ecco a voi un video originale e paradossalmente bellissimo.
Gente simpatica a EXPO. Infatti, quello nella foto non sono io.
Se io ad una classe dessi da svolgere un tema dal titolo Nutrire il Pianetae, su trenta alunni, una ventina mi parlasse di quant'è bravo e bello, oppure di informatica, musica, danza, turismo, architettura e politica, quei venti tornerebbero a casa con un 2 assicurato. Magari sono belle persone e sanno pure scrivere bene, ma sono andati fuori tema. Non ci sono storie. Il cibo è sapore, profumo, materia viva, tangibile; è tecnica, sapienza, tradizione. Tutto il resto è fuffa, fa da contorno, e può essere interessante solo nella misura in cui resta legato al cibo o, perlomeno, non lo fa passare in secondo piano. Questo non è solo un avvertimento per chi, un giorno, diventerà mio allievo ma, uscendo dalla metafora, quella classe è la trasposizione di EXPO. In quella classe ci sono molte teste vuote, ma altresì una valida minoranza che si impegna e sa stupire. Quindi, dopotutto, fare un salto a EXPO non è cosa sconsigliata. Busillis lo ha visitato usufruendo del gradito sconto universitario, con un biglietto da €10, che con 10 euro non entri neanche nella discoteca più fiacca di Milano. E neanche di Parma. Se è per questo neanche con trenta euro. Quindi, non lamentiamoci dei prezzi, quando un pacchetto di Marlboro rosse costa €5,20. Ho visitato e fotografato EXPO per voi che non ci siete ancora stati e volete andarci, ma anche per voi che non ci andrete mai.
Eccovi allora EXPO in 10 punti, fra pro e contro.
Vedete l'alberello sulla destra? La coda per entrare nel Padiglione Italia Inizia da lì. E nella foto è ripresa solo per un terzo della sua lunghezza. Auguri.
La pietrificazione per isteria è uno degli infausti effetti dell'eterna attesa.
1- LE CODE ISTERICHE. EXPO rappresenta l'Italia. E l'emblema dell'Italia sono le code. Lunghe. Lunghissime. Eterne. Sono il correlativo oggettivo della burocrazia lenta, della giustizia flemmatica, della capillare e cronica disorganizzazione che pervade il Paese. Così, se non ti organizzi per tempo, le file contro cui ti scontri sono il primo, vero, unico, grande ostacolo. Solo per entrare nel Padiglione Italia si calcolano tre/quattro ore di attesa (niente in confronto alle 7 per il Giappone). Infatti lo ho evitato come la peste. E non tutto il male vien per nuocere: circolano voci che il Padiglione italiano sia una ciofeca. Lo chiedo a diversi stranieri che incontro - loro che non sono di parte - e mi fanno di no con la testa. La conferma arriva anche dai ragazzi che distribuiscono informazioni e dépliant. Ma la prova schiacciante arriva dai visitatori pietrificati dalla disperazione. La foto vale come testimonianza.
2- PADIGLIONE ITALIA. Ne deriva, come prima conseguenza, che l'Italia, cioè colei che ospita l'Esposizione, non è stata in grado di prevalere per bellezza, accoglienza e contenuti su altri paesi, alcuni dei quali non si crederebbe possano essere così in gamba, e invece... Certo, non è una guerra e non è scritto da nessuna parte che debba essere così, ma lo si presuppone. Io mi fido dei turisti, e i turisti che incrocio lamentano la pochezza nel vedere solo le proiezioni sulle pareti delle immagini di alcune bellezze italiane. Il che, aggiungo io, è demenziale e sintomatico di poca fantasia. Se i contenuti lasciano a desiderare e deludono intensamente, l'esterno e il piazzale interno (che mi ricorda il Maxxi di Roma) soddisfano l'occhio, anche perché si inseriscono armoniosamente con le forme dell'Albero della Vita, eccellente attrazione su cui il Palazzo si
Rami o pasticci?
affaccia: le facciate in malta di marmo riciclato sono fotovoltaiche e molto luminose, caratterizzate dal ricorrente il motivo dell'albero e dei rami che si intrecciano. L'effetto che ne scaturisce è di una foresta, di un quadro di Pollock, ma anche di un grande pasticcio. Forse, pensando a quello che dicono degli interni, l'interpretazione corretta è proprio quest'ultima.
3- ALBERO DELLA VITA. L'Albero della Vita è una citazione michelangiolesca di Piazza del Campidoglio. Una chicca meravigliosa. Gli spettacoli d'acqua, luce, laser e fuoco sono scaglionati durante l'intero arco della giornata, ma quelli imperdibili sono alla sera alle 21 e alle 21:30. Emozionante.
Accostare Verdi a Piacenza è una bestemmia. Abusare di luoghi comuni come Land of values è diabolico.
4- REGIONI ITALIANE.
Torniamo indietro seguendo il Cardo, dove si trovano i padiglioni delle regioni italiane. Scenografico quello del Trentino e sfizioso quello dedicato al vino. Scarni e pressoché inutili tutti gli altri.
5- PLASTICA. Siamo sul Decumano, l'amplissimo e chilometrico
Gli anonimi formaggi di plastica.
stradone principale, dove troverete qualche insulso chioschetto di gelati commercialissimi e attraenti banconi dove sono esposti i prodotti tipici italiani. Tutto è fatto di plastica ma, cosa gravissima, non ci sono cartellini che identifichino origine e nome dei prodotti. Fra cinquanta formaggi, so ben capire dov'è il gorgonzola.
La macchina di Santa Rosa: alta 30 metri, pesante 5 tonnellate, caricata sulle spalle da cento uomini.
Un thailandese, invece, avrebbe qualche difficoltà e potrebbe scambiarlo per semplice formaggio ammuffito. Se vogliamo favorire l'incontro fra culture diverse dobbiamo essere sintetici, ma esaurienti. Fino in fondo. Pochi metri sulla destra e c'è Eataly, il fiore all'occhiello di Farinetti, di cui sono fan, ma non accetto che mi si serva le pietanze in piatti di plastica. Chi volesse, però, i prezzi sono decenti e si può scegliere la cucina regionale che più si gradisce. I tavoli sono al primo piano o a piano terra, sempre all'ombra della spettacolare macchina di Santa Rosa, uno dei simboli culturali di Viterbo. Qualunque cosa decidiate di fare, restate. Potete mangiare una buona pizza da Rosso Pomodoro o l'ottimo gelato alpino di Lait, ma l'importante è che saliate a visitare la mostra Il tesoro d'Italia.
Forse il simbolo più bello di Expo.
6- TESORO D'ITALIA. Farinetti chiama Sgarbi e gli propone di raccogliere 200 opere d'arte provenienti da ogni regione d'Italia. Sgarbi accetta, anche perché probabilmente Farinetti ha capito che il Padiglione Italia è un obbrobrio per perditempo. Di per sé, la mostra è deliziosa, vero cibo per gli occhi, ma io sono un purista, e forse lo è anche Sgarbi. E se
Luigi Serafini, Donna Carota
il caro Vittorio sapesse che la gente arriva a depositare i vassoi pieni di resti di cibo sul colonnato che fa da separé alla Donna Carota di Serafini, ecco, Vittorio benedirebbe Farinetti. Con l'acqua del diavolo. Non me ne può fregare lontanamente del giudizio dei dei moralisti a riguardo (è stata accusata di essere trash e pornografica): io ho un debole per Serafini, non so cosa farci, forse sono io che sono scemo o forse sono gli altri che vedono il marcio ovunque. Della mostra, ad esempio, mi scandalizza molto di più la mancanza di controllo e di spazio: i capolavori, che sono uno sfarzoso pranzo gratuito per gli occhi, sono ammassati. Come dire: ci sarebbe stato un intero Padiglione Italia a disposizione, ma quando non si arriva dove si dovrebbe, si relega l'illuminato Sgarbi a spazi ridicoli. Ne viene fuori non tanto una mostra, quanto un adorevole cabinet d'amateur: sembra di entrare nella cassaforte di Virgil Oldman ne
Alberto Savinio, Penelope
La migliore offerta. Ma, c'è un ma. Se un pazzoide entrasse con un pennarello indelebile in tasca (gli zaini vengono depositati), avrebbe modo di fare fuori tutte le opere che vorrebbe. Lo arresterebbero, ma le opere d'arte sarebbero rovinate per sempre. Fossi Sgarbi, per quei lavori, non ci dormirei la notte. Per il resto, la mostra merita solo per farsi inondare della bellezza del Pontormo, Tiziano, Leonardo, Stomer, Genovesino. La Penelope dal volto d'anatra di Alberto Savinio è rimasta nel mio cuore. Consigliatissimo, anche perché siamo in due gatti a sapere che c'è questa mostra, quindi... niente file. La stessa cosa vale per l'arazzo di Rubens esposto nel Padiglione della Santa Sede, per la scultura di Igor Mitoraj fuori dal Padiglione Polonia e per le Ali di Liebeskind in Piazza Italia. Da non perdere.
Rubens, L'istituzione dell'Eucarestia
Mitoraj, Il Grande toscano
Liebeskind, una delle quattro Ali
Figo eh? Non io, il padiglione russo, intendo.
7- ARCHITETTURE MOZZAFIATO. A questo punto, se prendiamo la zona Cardo come riferimento, avete vastissime possibilità di scelta fra padiglioni e cluster (padiglioni offerti da Milano). Molti sono i padiglioni dalle strutture avanguardistiche che, nel caso le code siano immense, si possono almeno godere esternamente, anzi, sono molto più belli fuori che dentro. Ad esempio la Cina, con il suo primo padiglione costruito da sé ed esuberante di fiori gialli; l'Azerbaijan, con le sue plastiche lame di legno e una sfera di vetro (che ricorda la Biosfera di Genova); gli Emirati Arabi, con le loro forme sinuose che richiamano le dune del deserto. La società di costruzione Vanke propone uno dei padiglioni più seducenti, opera di Daniel
Liebeskind, che suggerisce l'idea di un' anaconda avviluppata su sé stessa, dalle scaglie scarlatte. Kuwait, dalla forma che richiama i Dhow, le tipiche barche a vela del Golfo Persico; UK, con la sua architettura arzigogolatissima, rappresenta un alveare; Oman è stupefacente ad un primo acchito, ma se lo si guarda troppo diventa kitsch; le Zone Aride, con un soffitto ricoperto di aculei di vetro, forse metafora della pioggia che non tocca terra, forse allusione alle spine delle piante grasse o alla sabbia del deserto; il grosso uccello-automobile-fontana (!) della Repubblica Ceca; le strutture a forma di fiori di loto del Vietnam.
8- FUORI TEMA. Le meduse (Monaco), un pianoforte che suona
Splendidi arazzi in Turkmenistan. Ma il cibo?
da solo, una moto e tante altalene (Estonia), qualche prodotto inerme e qualche macchina di lavorazione sbattuti lì senza una spiegazione efficace (Repubblica Ceca, Lituania, quasi tutti i cluster dei paesi africani o quelli dedicati ai cereali e al caffè), la presenza di un solo bar (Cuba), metri di corda elastica da camminarci sopra (Brasile), soli souvenir (Vietnam), foto di monumenti (Italia), due video inutilissimi (Argentina): ecco, tutto questo e molto altro, col cibo, non c'azzecca proprio. Qualche volta può essere significativo, stupefacente (gli enormi arazzi del Turkmenistan, ad esempio). Sconsigliato l'ingresso, soprattutto se il tempo scarseggia.
9- TOP FIVE: Scordatevi la Top Ten. A nostro avviso, i padiglioni validissimi, per aderenza al tema e bellezza del contenuto, sono solo cinque e si contendono tutti la palma del vincitore.
ISRAELE, grazie a sofisticate tecniche di video-montaggio, offre al pubblico un serio, ma allo stesso tempo divertente, percorso attraverso la storia dell'agricoltura, dell'allevamento e della ricerca agroalimentare ebraica. Ludendo docere, docere ludendo. Una bravissima (e, diciamolo pure, bellissima) attrice finge di essere una discendente dei primi coloni, che dovettero scontrarsi con una terra arida, ma non per questo meno produttiva. La lotta contro la desertificazione è stata vinta grazie a tecnologia avanzata, innovazione, bonifica, ottimizzazione delle risorse idriche e tanta testardaggine (capirete). Sorriso sulle labbra, efficacia dell'immagine, 3D multidirezionale e costruzioni luminose non solo sono godibilissime, ma aiutano a fissare i concetti fondamentali, come quello della microirrigazione a goccia. Spettacolare il giardino verticale esterno.
Tartufo del Marocco.
MAROCCO non ha un'architettura esterna magnificente, anzi. Ma a noi l'esterno non interessa più di tanto. Marocco è uno dei pochissimi padiglioni che permette al visitatore di toccare con tutti i cinque sensi i prodotti: dalle mandorle ai fiori, dal tartufo ai frutti di bosco (!), dalle clementine al miele di euforbia fino all'olio di Argan, che mi va venire sempre in mente Giulio Carlo: deformazione professionale. Ognuno ha le sue croci. Colorato, coinvolgente, caldo - anche perché vi sparano in faccia ventilatori caldi per farvi provare il clima desertico. Un padiglione incentrato sul cibo a 360 gradi. Esci e sai finalmente cosa si mangia, come, dove e perché. Chapeau.
Non se la fila nessuno, eppure è la "mascotte"
del padiglione: direttamente da Torino,
una piccola coppa egizia che ritrae l'uomo
al centro di piante e animali.
PADIGLIONE ZERO di Davide Rampello è barocco e sontuoso,
come la biblioteca all'ingresso, forse il luogo più bello in assoluto di tutto EXPO, con i suoi cassetti e gli archivi della memoria: passato, presente e futuro si intersecano meravigliosamente. Nella valle delle civiltà c'è un albero secolare, simbolo della forza prorompente della natura che spacca la crosta architettonica richiamante la forma dei Colli Euganei. Segue la sala degli animali addomesticati, per non dimenticare che gli animali, senza l'uomo, sarebbero solo bestie improduttive. Addomesticamento e civiltà, la stessa civiltà che si evolve dalle palafitte fino alle metropoli odierne, passando attraverso la rivoluzione industriale. Lo spreco eccessivo da un lato e la monetizzazione del cibo dall'altro sono le derive che caratterizzano la concezione contemporanea del cibo.
La colossale Borsa Mondiale del Cibo presenta le oscillazioni di prezzo del cibo nel mondo, secondo dopo secondo: gli alimenti diventano meri oggetti di scambio, significanti vuoti, numeri, spot pubblicitari. Ripartire dalla conoscenza del paesaggio, della terra e delle tecniche di produzione, forse, è la soluzione migliore per affrontare al meglio il futuro. La terra, cosa da conoscere, da vivere, da sfruttare coscientemente, perché il suo è alito divino: divinus halitus terrae, d'altronde, è la splendida pericope pliniana che dà il titolo al padiglione.
L'Africa che mi piace ha un nome: Angola.
ANGOLA allestisce un padiglione grandissimo. Ma è un paese africano, e i paesi africani sono tutti miseri! Non è vero. Il Padiglione Angola dimostra che l'Africa non è tutta uguale, non è quel continente fatto solo di gente povera e disperata. L'Angola è la testimonianza di un Paese che, dopo guerre laceranti, si rimbocca le maniche e, grazie a petrolio e diamanti, riesce ad arricchirsi notevolmente in un breve arco di tempo, che noi italiani ce lo sogniamo. L'Angola è l'Africa che mi piace, che, similmente al Marocco, conduce lo spettatore a conoscere ricerca scientifica, alimenti, ricette, piante, il tutto organizzato su più piani che affacciano su una stilizzazione architettonica di un baobab, che proietta i volti dell'Angola e contiene i suoi cibi prediletti.
Gli elementi chimici di cui i cibi russi sono ricchi. Legittimo patriottismo ed efficacia espositiva.
RUSSIA è un gioco di specchi e di storia, a cui la Russia è da sempre patriotticamente legata. Si celebrano gli scienziati come il botanico e genetista Vavilov, pioniere negli studi sulla biodiversità, e il famosissimo Mendeleev, inventore della tavola periodica degli elementi. Ed è proprio sul motivo della tavola chimica e dei suoi rettangoli che si concepisce tutto il padiglione, uno dei più spaziosi, suggestivi e sicuramente uno dei rari a offrire piccoli assaggi - gratis - di liquori e salmone. Le lunghe code interne attaccate ai banconi e gli alambicchi vaporosi ricordano le atmosfere dell'Ammazzatoio di Zola. Suggestivo.
Aggiungo a latere la SVIZZERA, che non ho potuto visitare perché è l'unica a distribuire il flusso nell'arco della giornata e sono troppi quelli che vogliono portarsi a casa cibo gratuitamente. In che senso? Se il padiglione svizzero è esteticamente uno dei più brutti, è anche uno dei meglio concepiti dal punto di vista filosofico. Mele, caffè, acqua e sale sono a disposizione del pubblico, ma in quantità limitata. Il progetto, incentrato sulla disponibilità e sulla distribuzione delle risorse alimentari, invita a riflettere sui comportamenti di ognuno. Per questo la scritta sulla facciata del padiglione è: Ce n'è per tutti?
Un essere di plastica. Uno dei tanti. Si ride per non piangere.
10- QUEL CHE NON C'È E QUEL CHE NON DOVREBBE ESSERCI. Manca l'India. Non ve lo dice nessuno ma, se conoscete com'è fatto un mappamondo (o il mondo), vi stupirà non trovare il padiglione dell'India. La causa? I marò. Però trovate il Padiglione Coca-Cola e McDonald. Che, se siete come me, vi potrebbero cascare le braccia. Nessun problema: con tutta la plastica che c'è in giro, potete sostituirle con qualche banana. Di plastica.