venerdì 31 luglio 2015

PARCO DUCALE DI PARMA E VAND(ANIMAL)ISMO: DALLO STUPRO DI ANATRE ALLO STUPRO DELL'ARTE.

 
Prendiamo atto che il laghetto del Parco Ducale di Parma fa sempre più schifo e gli stupri di anatre (sì, amici miei, avete letto bene) lo rendono quasi un luogo maledetto, frequentato da maniaci sessuali dalle originali pulsioni erotiche. Prendiamo atto che anche il Parco Ducale di Parma fa schifo, con le sue slanciate piante sclerotiche, piene di galle e bucate, come bucate e rovinate sono le osteoporotiche panche. E mettiamo pure che fanno schifo la Pilotta per l'invadente puzzo di piscio tropicale e le strade, di centro e periferia, zeppe di rudo. L'incuria, a Parma, regna sovrana, più pervasiva di qualsiasi Maria Luigia.
 
Non mi occupo di politicaglia: per me destra, centro, sinistra non esistono. Esistono persone che lavorano bene, persone che lavorano male e persone - la merdre de la merdre - che non sanno dove mettere le mani, ma hanno solo una lingua che taglia il ferro. Negli ultimi dieci anni, Parma ha sempre più preso le sembianze di una vecchia decrepita. Le cause del suo declino hanno fatto il giro d'Italia e sono sotto gli occhi di tutti.
Bene: ieri 30 luglio 2015 un gruppo di animalisti ha protestato per le condizioni del laghetto del Parco Ducale e dei suoi miseri animali, lanciando acqua (sporca, chiaramente) del laghetto contro un quadro esposto sulle pareti del municipio. La protesta di per sé è giusta, e neanche tanto per gli animali in sé: il Parco Ducale non è il parchetto giochi - a cui si deve comunque rispetto civico - ma un parco storico. Un parco storico manomesso e interpolato nella sua forma originaria e poi rovinato e lasciato al suo destino, ma pur sempre un parco storico, anche se di notte, girarci dentro dà le stesse sensazione di un film horror: le luci sono poche e del tutto assenti le telecamere, che sarebbero utili se non altro per beccare eventuali stupratori,  quelli veri che, più che strappare gli occhi ad un oca, potrebbero strapparli ad un bambino senza essere visti.
 
Per non parlare degli scandalosi imbrattamenti su quei gioiellini che sono Palazzetto Eucherio Sanvitale e il grazioso Tempietto d'Arcadia. C'è chi, in questi giorni, si ingegna per migliorare le cose con sano spirito civico, e artistico: si tratta dei Silentia Lunae e ne parleremo nelle prossime puntate.
Intanto, i delinquenti girano indisturbati. Eppure le Forze dell'Ordine giacciono proprio all'interno del Parco Ducale.
Dove sbagliano gli animalisti (oltre a ritenere che gli animali sono come gli uomini)? Nel trasformare una forma di protesta sensata in atto di vandalismo, scagliando l'acqua addosso a chi non c'entra: un quadro. Dallo stupro di anatre allo stupro dell'arte, segno di profonda, profondissima ignoranza e demenza e, forse, inconsciamente, indice di quale interesse una buona parte di Parma abbia nei confronti delle sue ricchezze. Ricchezze che a noi non danno all'occhio, ma ai turisti sì.
 
Ma ecco, cosa prodigiosa, sui quotidiani locali compaiono le foto del quadro, di cui saranno due gatti a conoscere soggetto, titolo e autore. Il che è curioso, perché Parma, oltre a essere fatta di rudo, è strabordante di opere d'arte che il mondo ci invidia - non è un cliché - e che neanche i parmigiani sanno della loro esistenza. Come dire, solo se sporcate o distrutte, le opere d'arte ottengono il giusto rilievo. Quando l'animalismo si fa vandalismo, allora diventa fanatismo, come tutti gli -ismi che l'uomo ha inventato per rovinarsi. Ma, capiamoli!, solo grazie a questi gesti, gli animalisti raggiungono lo stato che affermano: gli uomini sono come animali e viceversa, anzi, gli animali sono meglio degli uomini. Infatti, se un cane volesse, su un quadro, ci piscerebbe senza tanti problemi. Dove sta la differenza?
Ora, le cose da fare, sono due: punire l'atto vandalico (ma ormai chi punisce più chi?) e riportare il Parco Ducale e la sua peschiera - perché questa sarebbe la vera identità del volgarmente detto laghetto - al suo antico splendore, anche a costo di riempirlo di telecamere.

Quindi? Quindi non fidatevi di Wikipedia: ad ora, il Parco Ducale è tutto fuorché un luogo romantico. E Parma sarebbe artisticamente una delizia, se solo fosse esaltata a dovere e credesse più in quello che fa. Ma, appunto, sarebbe.
 
 
FRANCESCO GALLINA

giovedì 30 luglio 2015

IL DEBITO CULTURALE CON LA GRECIA


Va di moda in questi giorni applicare matematicamente l'equivalenza [Grecia di oggi = Grecia di 2500 anni fa], insistendo sul debito che abbiamo nei confronti della cultura greca.
Come dire: davanti alle opere di Aristotele, come si fa a condannare a morte la culla della civiltà occidentale? Che poi, culla, la sarà per chi lo crede, non per me. Non insisterò su quest'ultimo punto per non rendermi eccessivamente odioso ai classicisti: se vi dico che trovo insopportabile l'80% del pensiero greco antico, penso che basti. Mi interessa semmai distruggere l'equivalenza storicamente, logicamente e metodologicamente  erronea.

Jena, sulla "Stampa" di qualche giorno fa, scriveva: <In Grecia è nata la civiltà, in Germania la barbarie>. Ebbene, sappia che la maggior parte delle civiltà barbariche erano molto più civili dei popoli greci e romani messi insieme. Barbari li chiamavano proprio i greci, dall'alto della loro spocchia. In realtà, i barbari non erano poi così barbari come la scuola e buona parte della storiografia ce li fa credere. La storia è sempre un'altra, non solo quella dei vincitori. Se i Paesi europei, eccetto Francia e Italia, hanno gli zebedei pieni dell'odierno atteggiamento greco, un motivo ci sarà. La Troika è micidiale, ma Tsipras non è da meno. Intanto noi, pensandoci nipoti dei romani - popolo cane come pochi altri - pensiamo al passato con gli occhi del presente, facendo cantonate micidiali. L'Europa di oggi nulla ha a che vedere con l'Europa di un tempo, il che può risultare banale, ma non lo è. Si crede invano a un traducianismo genetico-culturale che consiste sempre nel vederci figli o riflessi degli antichi. La Grecia non fa eccezione, e nemmeno noi, che ci vantiamo di essere figli di Leonardo o di Legnano.

I barbari mi stanno molto simpatici, sia chiaro. E la poco dolce Merkel fa il suo lavoro. Molto bene, fra l'altro. La Merkel non fa che difendere una grande Germania costruita col sudore, dal Secondo Dopoguerra a questa parte, degna erede di Adenauer e, come lui, poco simpatica, perché non le manda a dire.
O così o Renzì.
E, più che di debiti culturali, si parli di debiti monetari e di leggi greche che permettevano di andare in pensione ancora imberbi. Più che all'Iperuranio di Tsipras, si pensi al mondo delle cose, molto più complesso di qualunque teoria.

mercoledì 29 luglio 2015

L'ASTA DEL SANTO, OVVERO DELL'AGIOGRAFIA SOSTENIBILE

Quando si pensa all'agiografia - se si sa cos'è l'agiografia - vengono in mente cose come i martirologi tardo-antichi, le passiones, i flores sanctorum, le legendae o magari gli Acta Sanctorum dei padri Bollandisti. Insomma, cose noiose e pesanti per tutti (eccetto che per i pochi sfigati di Lettere, come me). Se poi si applica la narrazione delle vite dei santi al contesto teatrale, ci passano per la testa le sacre rappresentazioni medievali e allora viene voglia di prendere un'altra strada, a meno che...
 

 
A meno che non si progetti un  spettacolo eclettico, in equilibro fra gioco e teatro, come L'asta del santo de Gli Omini, giovane compagnia pistoiese ospitata lunedì 27 luglio 2015 all'interno della rassegna estiva Insolito Festival del Teatro delle Briciole. Luca Zacchini interpreta il battitore, un sacerdote borderline che, con l'aiuto del suo chierichetto ragazzo-pesce Francesco Rotelli, mette all'asta una selezione di 52 santi fra martiri, sante donne, santi di strada e santi d'acqua. I santi sono raffigurati su cartoni rettangolari - progressivamente appesi a fili - e le relative carte

sono diabolicamente contese dal pubblico a suon di lanci e rilanci, tramite i finti gettoni in lire offerti dalla compagnia nel pre-spettacolo. Alcune vengono persino vendute in euro, quelli veri, s'intende: c'è chi arriva a sborsare decine di euro per poche carte. Vere chicche dello spettacolo ed evidenti parodie dei Tarocchi, le sfiziose carte, prestate o vendute, sono una scanzonata presa in giro del santo e del suo peculiare martirio, ingigantito nei suoi aspetti più crudi, sadici, erotici, a tal punto da risultare sempre grottescamente esilarante. Io, ad esempio, ho puntato su San Martino, il protettore dei... no, non ve lo dico.

L'asta è una mordace messa pagana gradevolmente blasfema ma mai volgare, fatta di storie di morti, ma anche di comprensibili tempi morti, quelli delle offerte e delle controfferte, alternati da colpi di genio come la "camminata sulle acque" in bottiglia Sant'Anna, San Benedetto, San Pellegrino e San Gemini. E sono proprio queste a costituire il ricco bottino che spetta a  tre soli fortunati (o puri di cuore?). Il mescolamento finale di un mazzo di carte da parte di una vergine - una bambina pescata fra il pubblico - decreta infine i vincitori, forse sorretti dal santo che si sono accaparrati o forse, semplicemente, dal fatale "santo culo".

C'è da divertirsi, fra vassoi d'argento che diventano aureole e strambe divisioni dei pesci. Insomma, uno spettacolo adatto a tutti, persino agli atei più ostinati.
 
 
 
 
FRANCESCO GALLINA

venerdì 24 luglio 2015

PAOLO POLI, OVVERO DEL GARBO IN TV


di FRANCESCO GALLINA


"La lussuria non è un vizio, ma è essenza stessa della sessualità umana. La grande scoperta di Freud: aver separato l'istinto dalla pulsione. Nel mondo umano l'istinto non regola affatto la sessualità. La pulsione non punta alla riproduzione, ma al godere."



Solo per le brevi, ma sapientissime, parole di Massimo Recalcati, "E lasciatemi divertire" andrebbe annoverato fra i programmi più belli di quest'estate 2015. Le sue lectiones magistralis sono sempre uno scacco matto alla banalità dei luoghi comuni. Allo psicanalista sono concessi i primi minuti dello sfizioso programma che ogni sabato va in onda su Rai 3 alle ore 20.15. Ogni sera è incentrata su un vizio capitale. A Recalcati, seguono le poesie interpretate da Flavio Insinna e, momento cult, le saporite interviste che il sempre garbato Pino Strabioli rivolge all'inimitabile Paolo Poli. Ne sbocciano tre quarti d'ora che trasudano da ogni poro bellezza e garbatezza, virtù degli Angela e di pochi altri conduttori delle reti generaliste.
C'è la garbatezza di Strabioli, dicevo, ma anche quel pozzo di cultura che è il vecchio (ma nell'animo, giovanissimo e pimpante) Paolo Poli che, dopo quarant'anni di assenza dalla TV, ritorna per spolverare un po' della sua vastissima carriera e lo fa, prima di tutto, divertendo e divertendosi: il titolo del programma non è solo una dichiarazione di intenti, ma anche un degno omaggio ad Aldo Palazzeschi, una cui lirica viene letta a chiusura della serata e ha l'effetto della ciliegina candita sulla torta. E nella torta si salta da Dante a Fellini, da Boccaccio a Palazzeschi, dal teatro al cinema passando per la letteratura, dal pianoforte di Andrea Farri (autore, fra l'altro, di famosissime colonne sonore di fiction) agli incontri personali che hanno costellato la vita di Poli. 
Il mix è un gustoso aperitivo che fa della Cultura con la C maiuscola un digestivo alla portata di tutti. Non è un programma borioso. Tutt'altro: un salottino senza tanti effetti speciali o visionarie ambizioni, perché c'è Poli, e Poli basta e avanza, con le sue battute sature di sarcasmo e i suoi deliziosi sorrisini. Per non parlare del momento conclusivo del Santo della Settimana, che fa tanto Almanacco del giorno dopo.

Insomma, mancava un programma che sapesse miscelare serietà e ironia con la leggerezza che solo i blitz canterini di Poli possono regalare.

Saper ridere senza volgarità è un'arte. Paolo Poli ne è uno dei (pochi) massimi rappresentanti.


giovedì 23 luglio 2015

JAMES BOND E IL CINEMATOGRAFICO MISTERO DELLA FEDE

 
 di FRANCESCO GALLINA
 
 
 
  
Quando vedo il sorriso beffardo del sempre magistrale Cristoph Waltz. Quando vedo la serietà stampata sul volto di Ralph Fiennes, dopo il pimpante Grand Budapest Hotel. Quando vedo la magnifica fotografia di van Hoytema. Quando vedo i virtuosismi registici di Sam Mendes e l'eccellente uso dei droni. Quando vedo sfrecciare infuocate Jaguar e Aston Martin. Quando sento dietro gli strumenti musicali la bacchetta di Newman. Quando vedo rivivere - dopo lo sputtanamento globale di Mafia Capitale e dei suoi osceni funerali, lo splendore delle panoramiche su Roma, diamante attraversato dalle fulminee rincorse di auto davanti San Pietro e sul Lungotevere. Quando vedo l'impassibile bravura di Daniel Craig.
 
Ecco, quando vedo tutto questo, vuol dire che ci sono i presupposti per godersi quello che sembra a tutti gli effetti un film con le contropalle. Il trailer di Spectre, uscito ieri 22 luglio 2015, è un gioiello (ma svela maledettamente troppo), non fosse per il grande mistero cinematografico della fede: la pastosa dizione, la voce porno-impaludata e involontariamente comica della Bellucci. Perché. Vi prego, ditemi perché fate recitare la Tea Falco di Tornatore! Non riuscirò mai a capacitarmi. 
Bond, almeno, aiutaci tu. D'altronde, il tema di On Her Majesty's Secrete Service, scritto dall'insuperabile Berry, lascia sperare nell'eliminazione di qualche girl. Forse quella che non sa recitare.

mercoledì 22 luglio 2015

L'ECSTASY DI SANTA TERESA


di FRANCESCO GALLINA


L'arte e l'etimologia, a volte, possono essere salvifiche più di qualsiasi Beatrice dantesca.
Se nella scuola statale l'arte avesse lo spazio che deve, si studierebbe di più quel capolavoro che è la Trasverberazione di Santa Teresa d'Avila di Gian Lorenzo Bernini. Prediletta meta turistica e feticcio di Dan Brown, la Teresa del Bernini è, fuori da ogni tabù, una donna che perde i sensi masturbandosi al cospetto di Dio. Detta così, fosse in vita Torquemada, vi starei per dare l'addio sulla strada del rogo. Per fortuna, la Santa Inquisizione non c'è più.
Guardatela bene, quella bella fanciulla velata, fra le braccia di un angelo che, avvolto dalla luce accecante di bronzo, la seduce con la punta di una freccia (chi vuole intendere, intenda). Ma l'amore che Teresa prova per Dio non ha su di lei lo stesso effetto di una comune relazione sessuale, dove gli attanti si ecciterebbero nel pieno dei loro sensi, straripanti di vitalità. No. L'amore che Teresa prova per quel Dio (in realtà un puro Ideale) è lo stesso che spinge un ragazzo a provare l'ecstasy, quell'incontenibile desiderio di fare un'esperienza che va al di là dell'esperienza, perché oltrepassa ogni confine. E, oltre il confine del confine, c'è la terra di tutti e di nessuno: la morte.  Teresa, osservando bene, non giace gioiosa su un letto, a fare l'amore come i comuni mortali. No. Teresa è immobile, priva di sensi su di una nuvola, con quegli occhi "al cielo" che solo un bravo morto può avere. Teresa, vi assicuro, prova la stessa sensazione dei beati (o meglio, beoti) descritti da Dante nel Paradiso, ovvero non prova alcuna sensazione. La privazione dei sensi, fino a prova contraria è, forse eccetto casi particolari, indice di morte. All'opposto, le anime dell'Inferno percepiscono tutto, perché sono legate alla carne: per questo, da cristiano quale sono (!), mi stanno molto più simpatiche delle inconsistenti lucciole che popolano il Paradiso.
Dove voglio arrivare? Condannare chi fa uso di ecstasy? Neanche per sogno. Per me, un ragazzo di 16 anni non è un'ameba: sa perfettamente quali rischi si corrono assumendo certe sostanze e, se non lo sa, dovrebbe immaginare che ingerire una pasticca di droga (MDMA, ma non solo) non è come fumare una sigaretta. Non siamo qui a scagliare colpe, sebbene la colpa principale sia del ragazzo: la colpa è sempre di colui che dà l'assenso a un'azione, anche se giovane, anche se ingenuo, anche se per sbaglio. Ma qui non si vuole parlare di responsabilità, tanto meno fare il terzo grado a chi ha lasciato questo mondo.
Mi interessa più parlare di arte, invece, perché Bernini - forse inconsapevolmente - insegna che l'estasi è morte. Chi lo sa, può decidere cosa fare di testa sua, se ha una testa. Che poi: perché rendere illegale la droga? Se uno vuole fare esperienza della morte, è liberissimo di farlo, l'importante è che poi non ci si lamenti. D'altronde, l'etimologia di estasi, significa "essere fuori di sé" e l'anima, il proprio sé, dicono (ma ci credo poco) esca fuori dal corpo proprio quando giunge la morte.
L'ecstasy, come fuga dalla realtà, non è un'invezione degli americani. La inventarono per primi le baccanti, Platone, Plotino e i neoplatonici. Poi vennero gli insopportabili mistici medievali. Infine noi, che viviamo in questo Medioevo più medioevale del Medioevo stesso, dove le droghe, invece si essere concepite esclusivamente per scopi terapeutici, sono un modo per raggiungere ideali al di fuori del carcere corporeo. Ma gli ideali sono sempre forieri di morte.
Dio è morto per Nietzsche, non per noi del secolo XXI.

lunedì 20 luglio 2015

MA REA, OVVERO DI UN POETA DI STRADA



di FRANCESCO GALLINA



Aguzzate la vista, oh voi che passate per le strade di Parma, perché potreste imbattervi nelle stravaganti opere di un artista trentenne in piena ebollizione: Ma Rea. Nella sua tappa parmense, l'ho invitato a parlarmi di sé e della sua arte davanti a un risotto al culatello.
Chi è? Ma Rea è un poeta di strada.
Cioè? La poesia di strada si inserisce nella più ampia corrente della Street Art, generalmente in funzione dei murales o dei graffiti volti ad arricchire luoghi semiabbandonati o deserti delle città. Sebbene il legame con l'arte figurativa resti molto forte, nella poetica di Ma Rea sono la parola scarna e il suo potenziale comunicativo ed evocativo a farla da padroni.
Come? Niente graffiti, niente murales: solo piccoli pezzi di carta, plastificata e tagliata secondo varie forme, che vengono incollati con biadesivo su cestini della spazzatura, pali arrugginiti o segnali stradali. Cosa contengono questi foglietti "erranti"? Poesie fatte di versi quasi ungarettiani: poche sillabe emergenti come neri fili dal bianco della pagina, metrica libera, giochi di parole, uso frequente di assonanza dissonanza e consonanza, linguaggio semplice per raggiungere un vasto pubblico ma trattazione originale dei temi e dei contenuti, ben lungi dalla banalità - croce di molti poeti contemporanei.
A quali poeti si ispira? Al primo Ungaretti, come già detto, ma anche a Ripellino,  Gatto e Raboni, Montale e Pessoa, allo spirito fanciullino di  Pascoli e Rodari,  alla sregolatezza di Sanguineti, all'originalità dell'americana Lucille Clifton e allo stile di Diego de Silva.
Lo scopo? Ricreare una cornice all'opera all'interno della viva realtà, favorendo il germoglio della parola poetica laddove meno ce lo si aspetta. Sradicare la poesia dai libri per coltivarla dentro parchi, parcheggi, supermercati, bar, librerie, persino bagni. In Ma Rea si miscelano l'arte povera, la decontestualizzazione dadaista di Duchamp, lo spirito provocatorio di Maurizio Cattelan e la dimensione partecipativa di González-Torres, il minimalismo dell'arte concettuale e quella necessità di un dialogo con gli spazi pubblici che deriva dalla Street art
.E qual è la sua poetica? La freudiana poetica dello Stendiversòmio che, come lui dichiara nella tesi di laurea "è una fusione tra i termini stendibiancheria e versuro (termine dialettale veneto per indicare l’aratro). È proprio col versuro che rivolto la mia psiche (metaforicamente parlando) evocando cose profonde, esattamente come avviene con la terra, la quale viene rimestata dall’aratro e viene fuori di tutto. Poi prendo quello che ‘viene su’, lo assemblo un po’ e infine lo appendo sullo stendibiancheria in attesa che si asciughi". Ogni progetto nasce da una lunga fase di incubazione, su cui il poeta architetta prima un solido impianto teorico che si risolve, poi, in preparazione pratica. A casa produce il materiale necessario che poi, durante la notte o il giorno, applica negli spazi premeditati, incontrando non di rado le reazioni dei passanti.
Ma, insomma, chi si cela dietro Ma Rea? Un autista di bus padovano, laureato in Scienze e Tecnologie della Comunicazione, che vive a Ferrara (ma ancora per poco). Un ragazzo che scava nella sua aggrovigliata biografia per sublimare i suoi conflitti personali, le sue idiosincrasie, sotto forma di poesia. C'è tanta quotidianità nelle sue campagne (termine che si riferisce al marketing, ma anche all'espressione "battere la campagna"), poi definite tasselli, come i pezzi di un eterogeneo puzzle in perenne evoluzione.

Quali, dunque, le sue campagne?
Una campagna al mese per una poesia palese, della durata di 7 mesi, comprende:
-Cestinamenti: ispirato dai lavori del MEP, Ma Rea fa del cestino
della spazzatura un supporto capillare per la diffusione della poesia.
-Imboscate letterarie: Ma Rea entra di soppiatto nelle librerie e inserisce, qua e là nei libri, alcune sue poesie,  sorpresa (ed eventuale segnalibro) per i futuri lettori.
-Nomen Omen: i panni sporchi si lavano in casa per poi esporli all'aria aperta. Così, Ma Rea appende a fili il suo bucato poetico di fogli plastificati a forma di indumenti.

-Igienicamente: è con questo progetto che ho conosciuto l'esistenza di Ma Rea, entrando nei bagni di
Palazzo Schifanoia ad agosto 2014. I suoi rotoli poetici di carta igienica sono geniali, perché aiutano metaforicamente a pulirsi, come lui dice, "dalla volgarità, dal menefreghismo e dalla meschinità della nostra società".
-Elegantismi: con la carta plastificata Ma Rea crea simboli dell’identità di genere (collane, cravatte, orecchini, occhiali, papillon), che colloca come fossero decorazione urbana su paracarri e pilastri, creando dei personaggi poetici. Fonti di ispirazione per i suoi personaggi sono stati i lavori di Pao e di Oakoak .
-Surgelamenti: Ma Rea lascia clandestinamente all’interno dei freezer dei supermercati dei contenitori di alluminio, al cui interno inserisce pesciolini di poesie surgelate. Surgelare una poesia per i momenti più difficili può essere salvifico.
-Versi da bar: sono salviettine poetiche poste all’interno di specifici contenitori situati in bar, pasticcerie, birrerie. Pulirsi la bocca da un cattivo uso della lingua italiana non solo è auspicabile, ma vitale.
Sono seguiti, o seguiranno, questi tasselli:
-Sconfinamenti, con cui Ma Rea abbandona la parola per creare situazioni poetico-performative: la prima parte di questo tassello di land art  (ne sono in gestazione altre 5) è Infantilismi, che vede, a Natale 2014, gli hula hoop inanellare i rami degli alberi.
-Chi di spada ferisce di spada perisce che, con Paper Bansky, vede il poeta ritratto in foto lanciare rotoli di carta igienica: una protesta molto... intima, che cita sarcasticamente il famosissimo graffito Bansky Flower Throwing.
-Dottor Masiero e Mr Ma Rea: a marzo 2015 Ma Rea si laurea e decide di uscire allo scoperto, riempiendo un pentolaccio
tappezzato di poesie, contenente le poesie stesse. Il poeta erra per la città vestito con un paltò su cui i passanti appiccicano i foglietti: la poesia fatta uomo, l'uomo fatto poesia. All'evento sono presenti altri poeti di strada: Francesco Sartori, Francesca Pels, Mister Caos e la coppia Ste-Marta. 
-Patch Poetry: al Bender Bar viene esposto al soffitto un  copriletto liso dal tempo, emblema del passato che incombe sull'uomo,  totalmente rivestito di poesie sulle relazioni di coppia scoppiate, tema pregnante nella biografia di Ma Rea.
-In direzione poetica ed errante, allusione alla prima antologia postuma di De Andrè In direzione ostinata e contraria, affronterà il tema del viaggio e della strada: sarà inaugurata entro la fine di luglio 2015.
-Nel mese di agosto toccherà a Dialoganti, dal contenuto ancora top secret.
-A settembre, Ma Rea darà il suo personale addio alla città di Ferrara con una mostra, al locale 381, che metterà in relazione la produzione poetica a quella fotografica del progetto Chirurgia visiva, con cui continua a dare prova di un acuto spirito pareidolico d'osservazione. Insomma, Ma Rea vede facce umane. Dappertutto.

E il risotto al culatello? Eh, niente, il risotto al culatello era davvero delizioso. Ma Rea ritornerà nell'assopita città farnese? Glielo auguro. Ci hanno tolto il Festival della Poesia, ma la Poesia vive anche sotto mentite spoglie. Quelle di Ma Rea.
Intanto, aguzzate la vista, oh voi che passate per le strade di Parma...
 


sabato 18 luglio 2015

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: MA REA

Per la nostra rubrica del sabato, vi propongo due significative poesie di Ma Rea associate a due opere d'arte: un film e un'installazione artistica. 
Chi è Ma Rea? Se ne parlerà diffusamente lunedì su Busillisblog. Intanto... buona lettura!



Scena tratta dal film Il dormiglione (1973), di Woody Allen.

Nel '93

Un naso sbilenco
si prese il mio destino 
e diede uno stile 
al mio respiro.


Maurizio Cattelan, Untitled, 2002, Installation Museum Boijman.
[Senza titolo] 

Oggi
intravedo le paratìe
della nostra libertà.

Sono immense.

Si dovrebbe dire,
dunque,
che siamo un cantiere aperto?




giovedì 16 luglio 2015

"IL PIACERE", OVVERO DELLE INDEGNE COPERTINE DEI LIBRI



di FRANCESCO GALLINA


Nelle piccole e grandi librerie è difficile trovare una copertina che sia degna di essere considerata tale. Contenutisticamente, potrebbe essere una fetecchia il libro che stiamo scrutando fra gli scaffali  ma, se la copertina sa il fatto suo, saremmo indotti ad acquistarlo.

Ci sono gioiellini di copertina come Nemesi di Philip Roth (Einaudi), Il canone del tè di Lu Yu (Quodlibet), La società degli animali estinti di Moore Jeffrey (Isbn), La terra della prosa a cura di Andrea Cortellessa (L'Orma), 10 Corso Como di Carla Sozzani (Rizzoli), Mali minori di Simone Lenzi (Rizzoli), The Adventures of Beekle: The Unimaginary Friend di Dan Santat (Brown and Company) per non parlare di Lui è tornato di Timur Vermes (Bompiani), Giallo giallo - yellow yellow di Frank Asch con le meravigliose illustrazioni di Alan Stamaty (Orecchio acerbo editore) e quel capolavoro magistrale del Codex Seraphinianus di Luigi Serafini (Rizzoli). O, ancora, mi piace ricordare le sfiziosissime copertine della casa editrice cremonese Tapirulan, frutto di una stimolante collaborazione con eclettici illustratori di eccellente qualità.
Poi ci sono le copertine fatte male. Banali. Senza gusto. Brutte.
Ci sono persino quelle sbagliate: per fare un esempio su tutti, le Lettere di John Fante edite da Einaudi con l'immagine di copertina che riporta il volto del poeta Stephen Spender. Ma Spender non ha scritto le lettere di Fante, tutto qui.
E, infine, si giunge all'insulso regno delle copertine insensate. È il caso de Il Piacere di Gabriele d'Annunzio appena pubblicato da Mondadori. Io non so cosa sia successo ai grafici e preferisco non saperlo, ma vorrei incontrarli per benedirli ed espiarli dal peccato che hanno commesso.
L'intento è lapalissiano: scatenare gli ormoni femminili davanti ad un bel fusto nudo, inanellato, tatuato e infiocchettato. Ci manca solo la frusta.
Ora, chi conosce l'opera sa che D'Annunzio indulge sì su particolari erotici, ma lo fa con la grazia (e, non nascondiamo, la noia) che gli si addice. D'Annunzio è un uomo raffinato che si pasce dei colori del lusso, non un pischello davanti a un fondo bianco. Questa copertina, con tutto il rispetto, non solo travisa l'opera contenuta, ma sfida ogni buon senso: è il cattivo gusto fatto carta, non il piacere, ma la sua negazione. Va bene per un'opera di James o Moccia, non per D'Annunzio. Questione di letteratura, non di moralità.
Nonostante ciò, se il libro andrà a ruba, ci sarà da fare i salti di gioia, non temendo che, nel futuro, siano magari Belen e Stefano De Martino a comparire sulla facciata dei Promessi Sposi.