sabato 29 agosto 2015

UNA POESIA DI VALENTINO ZEICHEN, DOPO L'AFFONDO DELLA BORSA CINESE

 
di FRANCESCO GALLINA
 
 
Per la consueta rubrica poetica del sabato, propongo per la seconda volta Zeichen, perché La pioggia è una poesia che calza a pennello con quanto è avvenuto ai mercati cinesi: l'esplosione della bolla speculativa e un'incombente stagnazione economico-finanziaria.
 
LA PIOGGIA
 
da Poesie 1963-2014 (2014) di VALENTINO ZEICHEN
 
 

SE QUESTA È UNA POESIA: UNA SERIA PROVOCAZIONE



di FRANCESCO GALLINA




Honoré Daumier, Il poetastro, 1842


Se io scrivo
parole a casaccio così come sto facendo
cacciando a capo parole
(come vengono vengono, tanto la metrica chi la sa più!)
senza nemmeno
aver letto nella mia insulsa vita
uno straccio di poesia,
senza nemmeno sapere che cos'è la poesia
molti crederanno che
io sia un
poeta, solo perché caccio a capo le parole.
Ma si sbagliano di grosso.
In realtà sto solo scrivendo
una ciofeca, ma è un tabù
dirlo, quindi... siamo tutti
poeti, che bello!



[AVVERTENZA: sono state indegnamente maltrattate sillabe durante la composizione di questo post. Post, non poesia, appunto.]

martedì 25 agosto 2015

LE PRETESE DEI CLANDESTINI, OVVERO DELLA CORDA CHE SI STA SPEZZANDO


di FRANCESCO GALLINA


Acquisto frutta e verdura da un egiziano.
Mi sono affidato a un medico di origini centrafricane per curare un problema di salute particolarmente grave. Un curriculum invidiabile.
Quando bevevo il latte (ne sono diventato allergico), sapevo e so perfettamente che è stato estratto da una mungitrice azionata da un indiano. Come lo so? Quell'indiano è mio amico, e sa la matematica meglio di me; sua sorella la insegna a Mumbay.
Verso questi tre uomini nutro totale rispetto. Me ne frega assai che siano di colore o che credano in una religione diversa dalla mia. Mi interessa, invece, la passione con cui lavorano, il servizio che svolgono, la loro educazione, umiltà e intelligenza. Anche loro sono venuti in Italia per cercare una vita migliore: sono venuti in Italia, spaesati, con i loro documenti, e si sono integrati chi con lo studio, chi con il lavoro. Hanno contribuito, cioè, per il bene loro e della società che li ha ospitati. Non hanno fatto pesare la loro presenza, le loro posizioni; non hanno preteso niente, anzi, hanno ricambiato con qualcosa di loro. Eppure, mi raccontano, il loro iter burocratico non è stato per niente facile e, nei primi tempi, si sono dovuti arrangiare alla bell'e meglio.
Questi tre uomini hanno bussato alla porta legalmente e si sono integrati mettendosi all'opera.
Questi tre uomini sono l'esatto contrario dei clandestini che, ieri, hanno protestato a Milano, bloccando il traffico e gente che doveva magari andare a lavoro, perché qualcuno, ancora, in Italia, lavora. Ci giungono notizie di continue e pressanti ribellioni dovute al fatto che, a costoro, i centri di accoglienza non garbano, sono brutti, vi stanno tutti addossati, il cibo è gramo, per i documenti di vorrà un anno se va bene. L'insoddisfazione più totale. Hanno evidentemente scambiato l'Italia per il Paradiso Terrestre, ma hanno fatto i conti molto male: d'altronde, mica tutti possono essere bravi in matematica come il mio amico indiano. Questa gente, però, benché possa provenire dai luoghi più disastrati della Terra, non ha alcun diritto di fare i capricci, manifestando collera nei confronti degli ospitanti, solo perché le cose non vanno o non sono nella condizione che si erano immaginati. Perché? Perché il Paradiso Terrestre non esiste, è una vana e mitica illusione.
Ricordo un aneddoto autobiografico. 2011. Ospedale di Parma. Mi mettono su un lettino con bollino verde, nell'allora oscena sala d'attesa: uno squallido e piccolo quadrato in cui stavano ammassati fino a una trentina di letti, con annesse carrozzelle e sedie. Ci sono stato otto ore. Mi hanno rispedito a casa scambiandomi una peritonite per una colica. Quando sono rientrato, c'è mancato poco che crepassi. In quelle otto ore di attesa (e ignoranza medica), non m'è saltato in mente per un istante di scendere dal lettino e spaccare la mia flebo sulla testa del magrebino ubriaco che mi è "passato davanti" con urgenza. Eppure avrei potuto farlo, fosse magrebino o meno. Ma l'ospedale non era e non è mio, anche se le tasse che pago confluiscono in parte nelle sue casse. E, di questo, sono felice. Almeno se vengono fatte le giuste diagnosi.



Eraclea, pasta rifiutata e gettata in mezzo alla strada
Non è finita qui. Dopo avermi tagliato l'appendice in gangrena e avermi lavato l'intestino con 8 litri di soluzione, la mensa mi propose un orrendo pezzo di carne di maiale - che tutti sanno essere un toccasana per le viscere chirurgicamente tartassate. Avrei potuto sbatterlo giù dalla finestra come successo a Eraclea, o magari tagliare la gomma delle auto dei cuochi, come è successo a Ponte nelle Alpi, o direttamente pestarli a sangue come accaduto all'asilo Pampuri di Brescia. Invece non l'ho semplicemente mangiato, senza tanta petulanza. Provenivo anch'io da una guerra, fatta di atroci spasmi e dolori di cui, ad oggi, ne soffro le conseguenze, senza aver malmenato il muso alla dottoressa che confuse pomo per pero.
Cosa ne deduciamo? Che l'Italia è messa male di per sé, anche senza profughi. Ne deduciamo, inoltre, che leggere i testi classici greci e latini, è importante: capiamo che ospitalità è l'atto di adeguarsi ai costumi dell'ospitante, ricambiando l'accoglienza con un dono tanto prezioso quanto quello ricevuto, pena il disonore.
Nel 2015, da rifugiati ed emigranti irregolari di altro genere, non possiamo chiaramente pretendere più nulla.
Per questo ve lo chiedo con il cuore in mano: non fate dispetti, non create ulteriori problemi a un'Italia che è già di per sé un problema. Fatevi un giro per ospedali, case di cura, ospizi, baraccopoli italiane e, se davvero venite da posti devastati dalla povertà, comprenderete che il Paese dei Balocchi esiste solo per Pinocchio, cioè un asino patentato.
Il razzismo è odio ingiustificato verso fattori somatici e, per pseudoscienza, anche psichici. Il razzismo, in altre parole, è fallace.
Invece, il detto c'è un limite a tutto è una sacrosanta e rispettabilissima legge umana che non conosce né colore né partito, ma si tramuta in naturale insopportazione. Il che non è da sottovalutare: la corda si sta spezzando. E, quando le corde si spezzano, la storia non lascia presagire belle cose.

domenica 23 agosto 2015

CASAMONICA, OVVERO DELLA GRANDE BELLEZZA


di FRANCESCO GALLINA
 
Ho ammirato Sorrentino fino a poco prima de La Grande Bellezza. La regia e la fotografia restano capolavori,  le sceneggiature, invece, sono diventate discutibili. Sarò io che scrivo troppo, ma un film con una sceneggiatura striminzita e, per di più, barocca, non mi soddisfa, sebbene si tratti della personalissima poetica dell'autore. Del film vincitore all'Oscar mi piacciono le magniloquenti riprese di Roma e i personaggi sveviani fino allo sfinimento. Tuttavia, i (mis)fatti recenti che hanno coinvolto la capitale mi fanno rivalutare sotto una nuova luce il film, apprezzando una scena in particolare.
Siamo verso la fine e la Dia arresta un boss mafioso che vive sopra l’appartamento del protagonista Jep Gambardella. Lo scopriamo solo in quel momento che è si tratta di un boss mafioso: fino ad allora poteva essere un manager, un avvocato, un comune dottore. Ammanettato, l'uomo dice: "siamo noi che mandiamo avanti il Paese".

Eccolo Vittorio Casamonica, in giacca e cravatta, smilzo e senza calvizie. Ha un altro volto, ma è lui. Sorrentino, che ha operato siffatta critica sociale, su un punto almeno, s'è sbagliato di grosso. A Roma, i mafiosi non vengono ammanettati dalla polizia. Non vengono ammanettati, e basta. A Roma come nel resto d'Italia. Sorrentino ha rappresentato il marcio di una Roma elitaria, paralitica e baronesca, dimenticando - o semplicemente non volendo - mettere in evidenza la putrescenza che germoglia dal basso. Cioè?

Facciamo un esempio. A L'Aria che tira, su La7, un'intervistatrice dedica un servizio sui venditori abusivi su Ponte Sisto. Uno di loro offre in modo illuminante: "Se la polizia non ci rompe le palle, perché dovete rompercele voi della TV"?
Eccolo, il punto. Il busillis sta proprio qui, annidato nella banalità di tutti i giorni. La banalità del male. Facile prendersela con i Casamonica. Quando grotteschi orrori di questo genere provengono da casate corrotte e potenti (ricordo che i Casamonica sono di origini sinti, per semplificare, rom) è facile indignarsi. Indignarsi, anzi, prende le forme di una misera catarsi. Ci sentiamo tutti più puri. E invece no. La merda nutre le proprie radici dal basso, che più in basso non si può. Il permissivismo, così, si infiltra nel sangue dell'italiano con la rapidità del colesterolo nelle vene dell'obeso. Solo che, quando si è saturi di grasso, non c'è più dieta che tenga; serve solo una liposuzione, qualcosa di radicale, e quindi sottesamente pericoloso, se non mortale.
La liposuzione di Roma non deve partire dai Casamonica, da ladri e schifosa feccia dell'umanità, ma dalla polizia e dalla magistratura, che ormai tutto permette e difende: sono 12 le pattuglie che sfilavano al funerale. Ma, soprattutto, i parenti dei Casamonica sono a piede libero. Pensateci: dopo tanti crimini commessi, com'è possibile?

Ricordatevi, perciò, il numero 12: 'o surdato, il soldato, secondo la smorfia napoletana.
Quando chiamate la polizia, e vi rispondono di avere pochi uomini incapaci di affrontare certi delinquenti e certe avventure - come è successo a me nel passato -,  ecco, in quei casi saprete come smerdarla a dovere.

sabato 22 agosto 2015

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: MARINO MORETTI

COSA E PAROLA
 
da Il giardino dei frutti (1916) di MARINO MORETTI



Ernst Ludwig Kirchner, Artistin - Marcella, 1910, particolare.


Felicità, cosa che sa d'amaro,
parola che si lascia dire e ride,
fior che fiorisce come un frutto raro,
gioia che il cuor sopisce e non uccide;
felicità, larva di donna, riso
di donna, occhio di donna, ombra di donna,
seppi io forse il tuo gran rombo improvviso,
rabbrividii nel tuo bacio che assonna?
E se la stringo al mio cuore soave
la chiave della mia casa solinga,
felicità, forse t'ho chiusa a chiave,
fior, gioia, donna, ombra, infelicità?
 

venerdì 21 agosto 2015

GIOSUe CARDUCCI, SENZA ACCENTO


di FRANCESCO GALLINA

Sto passeggiando per Bardolino, sul Lago di Garda, quando mi inoltro in via Giosue Carducci. Ma, sulla targa, c'è l'accento sulla e finale.


Ricordo che nei documenti anagrafici, il nome del poeta appare sempre scritto Giosué, con l'accento nell'ultima sillaba. Fino al 1880 circa, si firma sempre Giosué. In seguito, decide di cambiare l'ortografia e la pronuncia del nome, da Giosué a Giòsue, non fosse che per trascuratezza grafica, potendo così unire con un solo tratto di penna il nome al cognome e quindi a trasformare l'asta iniziale del C come accento finale della e, fino all'omissione finale. Nei frontespizi da lui controllati delle Opere edite dalla Zanichelli, il nome è accentato fino al volume nono, mentre si disaccenta a partire dal dodicesimo, del 1902.
Cosa dedurne? Che Carducci, quell'accento, per un motivo o per un altro, non lo gradiva.
Seguendo la logica tipica della filologia, sull'ultima volontà del Carducci non vi sono dubbi: togliere quel maledetto accento.
Cose da poco? Non credo: al posto di via Alberto Moravia dovremmo leggere via Alberto Pincherle, perché quello era il nuo vero nome.
Nel caso di Carducci non c'è di mezzo uno pseudonimo, ma un solo, minimo, accento.
Forse è il caso di rispettare questa piccola e originale scelta dell'autore, come alcune antologie ufficiali hanno deciso di seguire da tanti anni a questa parte.
La firma sul suo ritratto da vecchio, ne è la prova schiacciante.

mercoledì 19 agosto 2015

CARO FELTRI LE SCRIVO, OVVERO DEGLI INUTILI STUDI UMANISTICI


di FRANCESCO GALLINA

Gentile dott. Feltri,
le scrivo dopo aver assistito alla turbolenta diatriba suscitata dal suo articolo pubblicato il 17 agosto 2015 sul «Fatto Quotidiano». Quanto scriverò non vuole alimentare nessuna polemica - magari qualche riflessione - e non sarà fazioso o "di parte", sebbene le scriva uno studente sfaccendato iscritto alla Facoltà da Lei più vituperata: Lettere. Premetto, altresì, che nutro profondo rispetto per tutti, bocconiani compresi, e credo che non ci sia da foderarsi gli occhi davanti ai numeri da lei forniti nell'articolo. Sono qui, invece, per porre una serie di quesiti, che con i numeri hanno ben poco a che vedere. Studiare Lettere o affrontare un qualsiasi altro ramo umanistico non è bello, laddove per bello si intende comunemente fatato, facile, all'acqua di rose, divertente. Insomma, un piacevole passatempo. Reale è anche la sopravvivenza di una fetta di studenti che scelgono Lettere perché non sanno cos'altro fare - ma vogliono a tutti i costi una laurea- circolando la notizia che a Lettere si leggono dei bei (vd. sopra) libri. Le mele marce, tuttavia, vivacchiano un po' ovunque e non devono avere voce in capitolo. Mele marce sono e mele marce restano.
Per il resto, non starò a tessere le lodi della facoltà che frequento, bensì porrò in evidenza alcuni dubbi e considerazioni.
1- Gli studi belli non esistono. Lo studio bello è quello che permette allo studente di arrivare al 6 - o 18 - politico e c'è in tutte le facoltà del mondo: si chiama sindrome del fancazzismo, e si coltiva sin dalle elementari. Lo studente valido, da qualunque dipartimento provenga, sa che studiare è bello solo e soltanto se quanto studia non gli avvelena la propria esistenza. Ovvero: "voglio fare il medico perché mio padre è medico e pretende che anche io lo sia; lo faccio, ma non ne ho voglia; ne uscirò fuori, bene o male, poi, tanto, se dimenticherò una garza nella pancia, cavoli del paziente; l'importante è continuare la strada di famiglia". Viceversa, se c'è vocazione per qualcosa, la si studierà, seguirà e accoglierà accettandola in ogni suo aspetto e difetto, nella buona e nella cattiva sorte. Si chiama amore, che è sentimento bello solo per gli ingenui faciloni. Il devoto a una disciplina dirà: "è bello studiare matematica non solo perché ci capisco, ma perché ho deciso di versare il mio sudore anche sui teoremi più ostici; ma non mi lamento, perché è stata una mia scelta e voglio portarla fino in fondo".
2- Lettere non serve a niente. Eppure, fior fiore di studiosi stranieri si riversano a frotte in Italia per studiare non solo la tradizione letteraria italiana, ma persino quella greca e latina! Non arrivano sui barconi, per questo non se ne sente parlare. Che persone inutili... che cosa se ne faranno, lo sanno solo loro. Le biblioteche italiane, poi, sono piene di carta straccia che non aspetta altro che essere mandata al macero. Eppure c'è gentaglia che ha perso la propria vita ad accecarsi sui codici antichi per tramandarci i testi del passato nel modo più puro e originale possibile: si chiamano filologi, questi sconosciuti che dissanguano le proprie energie tanto sui papiri di Ossirinco quanto sui cartigli di Montale.
3- Beni culturali non servono a niente. Eppure, mi dicono che l'Italia sia piena zeppa di opere d'arte e complessi archeologici che non aspettano altro di essere difesi, restaurati o valorizzati. Deve avermelo detto sempre uno di quegli inutili stranieri che vengono a sbavare davanti alle nostre ricchezze. Ricchezze che arricchiscono le casse dei comuni, ma lo Stato Italiano preferisce diffondere la Cultura (un ideale e niente più) e non la cultura. E c'è una bella differenza.
4- Filosofia, non parliamone. Una perdita di tempo. Eppure, mi è sufficiente sentire come uno si esprime, scrive o formula il proprio pensiero, per ponderare il suo valore: non in termini di soldi, ma di intelligenza, serietà e verità. Non serve a nulla studiare i neoplatonici, tanto l'Isis - per fare un esempio - non fa altro che prendere a piene mani dalla cultura averroistica e arabo-platonica e medievale. Chi la studia, saprà come orientarsi anche nell'Islam di oggi, sapere se davvero esiste un Islam moderato e uno radicale o se, invece, aveva ragione la tanto martoriata Fallaci. Cose da poco, insomma, contando che l'Isis sarà il nostro probabile futuro conquistatore. E ben venga, tanto la conservazione dei beni culturali è inutile e costosa, roba da ricchi, roba "di destra". Annichilendo i frutti del genio artistico orientale, l'Isis ha dato prova di saperlo.
Chi fa passare la filosofia come opaco filosofeggiare è un demente, cioè uno che non pensa (de-mens) o pensa male, e quindi parla male. Uno poco appetibile, insomma.
5- A proposito di de-mens: il latino è una baggianata. Il greco, pure. Oggi serve solo l'inglese, no? Il latino è troppo difficile, i nostri figli faticano a capirlo: se Cecilia e Alessandro Gonzaga sapevano tradurre dal greco al latino a 6 anni, erano loro gli scemi, mica noi. Non serve a nulla sapere chi fosse la fidanzata di Catullo, ma come scriveva Catullo, magari, a qualcosa serve. Per non parlare di Cicerone, Seneca o Apuleio. Non serve solo il vocabolario per dirsi alfabeti: oltre al lessico ci sono grammatica e sintassi. Il latino, in questo, è un toccasana.
6- Chi studia lettere legge tanti libri per saper scrivere, e scrive per saper leggere. Chi scrive senza leggere non è uno scrittore.
- Obiezione! Si leggono i soliti classici! Di Dante e della sua Commedia si sa tutto.
Ne siamo sicuri? Se mi sarà concesso, nel futuro vi dimostrerò il contrario. Ma cosa sono i classici? Quale senso ha, oggi, leggerli? E soprattutto: il canone che oggi propinano le antologie ha senso? Sarà mica il caso di rivederlo? E per chi?
7- Per chi, appunto? Qui tocchiamo il punto più dolente: i bambini, i ragazzi. Dei licei? No, di qualsivoglia scuola e indirizzo: l'alfabatesimo deve possederlo il primo luminare del Cern così come l'ultimo facchino della stazione Termini. Facciamoci alcune domande. Quanti ragazzi sanno leggere? Molti, mi si dirà: l'analfabetismo è affar passato. E vi dico: sì, ma l'analfabetismo primario, non quello funzionale. Quanti sanno capire quello che leggono? Quanti sanno scrivere? Quanti scrivere in  modo articolato e ragionato? Quanti sanno interpretare la realtà che li circonda? L'OCSE 2004 ha fornito dati imbarazzanti. Un esempio: il 16 agosto si celebrava la scoperta dei Bronzi di Riace e un utente Facebook, per niente ironico, scrive "se li hanno buttati a mare vuol dire che erano veramente brutti".
A voi ogni giudizio.
8- I numeri sono importanti. Ma anche la lingua che, per natura, ci è data prima dei numeri, è importante se sfruttata con intelligenza, non per sparare giudizi di poco senso come dire che studiare Lettere è "di destra": Gaber aveva capito perfettamente che "destra" e "sinistra" sono concetti baggiani, oltreché inutili.
I numeri sono importanti, ma non sono la Bibbia, né l'oracolo di Delfi.
L'economia è importante, l'economia usa i numeri, ma l'economia non è una scienza esatta. Tutt'altro. Lei lo sa meglio di me.
9- Detto questo, tiro le fila. Ricondurre a una questione di responsabilità individuali quelle che sono bacate mode e stili imposti dal sistema economico e dal mercato del lavoro, è un discorso chiaramente fallace. "Di destra", semmai, è l'apprendere per il solo piacere di apprendere. Apprendere per rendere utile il proprio sapere, applicandolo alla realtà, è semplicemente intelligente. L'Italia, fatta di libri, quadri e opere d'arte,  non avrebbe bisogno d'altro. Ma l'Italia è anche fatta di bambini che sanno leggere e scrivere male, e non I Promessi Sposi, ma la sola lettera di presentazione al datore d lavoro o persino la tesi di laurea. Ne ho lette alcune scritte peggio delle relazioni parlamentari di Razzi.
Scrivere male non è solo questione di ignoranza, ma anche di mancanza di rispetto per chi legge.
Infine: come insegna Moretti, le parole sono importanti, per non dire vitali. Definire uno studio inutile è quanto meno azzardato.
10- Ultimo dubbio. Il più grande, e lo pongo a lei, dottor Feltri, con tutto il rispetto possibile. Non c'è  sarcasmo. Com'è possibile che, con una brillante laurea alla Bocconi, non svolga il lavoro di economista? Vero è che un master in giornalismo non rende necessariamente giornalisti, ma un pezzo di carta uscito dalla Bocconi dovrebbe portare a ben altri e più consoni sbocchi lavorativi. O mi sbaglio?

mercoledì 12 agosto 2015

IL METEO, OVVERO DEL PATETICO OROSCOPO POLITEISTA

 
di FRANCESCO GALLINA


Siamo patetici, ma tanto tanto.
Non solo confondiamo religione e scienza - trasformando l'una nell'altra e viceversa - ma ci siamo pure messi ad attribuire nomi mitologici alle perturbazioni meteorologiche, facendo del Meteo un Oroscopo pietoso. Personificare sbuffi di vento, pioggia cadente, nube incostante, non solo nuoce alla scienza metereologica, ma ridicolizza la scienza in generale, quella vera, seria, competente.
Non ci limitiamo più a parlare di Anticiclone  delle Azzorre e Anticiclone Africano. No! Troppo banale e contrario al sacrosanto rasoio di Occam. Cerchiamo allora - con l'insistenza di chi non ha niente di interessante da fare nella propria esistenza - nomi bizzarri, accademici o altisonanti, che non ci rendono un popolo avanzato e ateo, come ci crediamo (e non è una battuta). Si scivola allora nel politeismo greco-romano, per cui si personifica tutto, perdendo il senso della ragione; e la ragione sana sa che la natura fa di testa propria perché una testa non ce l'ha. Insomma: la natura non sa nemmeno chi siamo e non sa nemmeno chi è essa stessa, e noi? Noi dobbiamo battezzare le configurazioni meteo per renderla razionale. Ed ecco Caronte, Flegetonte, Scipione, Minosse e Sticazzi.
Da dove nasce la moda? Cosa c'è dietro questo infantile andazzo? Focus? Studio Aperto? Mistero?
Resta un mistero aperto, come misteriosa vuole essere resa la natura. Per il resto, se proprio vogliamo fare i pagliacci, approfittiamone, insieme ai ragazzi delle superiori, per imparare ciò che ormai la scuola italiana non insegna più, o insegna male: la Divina Commedia, ad esempio, con i suoi luoghi e i suoi personaggi (e, vi avverto, Sticazzi è l'unico non dantesco). Fosse la volta buona...

Nel frattempo io aspetto sentitamente l'Anticiclone Pilato che, dicono, farà scendere dal cielo cirrocumuli a forma di croce per crocifiggere l'umana stupidità. Ma faremo in tempo a morire tutti prima. Prima di Pilato. Prima della stupidità.
 
 
 
 

martedì 11 agosto 2015

SPOT TRIVAGO, FRA ANDERSON E TORNATORE

 
 
di FRANCESCO GALLINA
 
 
Di pubblicità valide, in TV, ne circolano decisamente poche. Lo stillicidio degli osceni spot finanziati dalle compagnie telefoniche si alterna a messaggi pubblicitari banali e ritriti.
Ma, in mezzo alla feccia, qualcosa di buono ancora si trova. La palma d'oro, quest'estate, va sicuramente alla pubblicità di Trivago. Sono tre, in realtà, gli spot, della "collana" Sappiamo tutto di hotel: la regia dei giovani Hanna Maria Heidrich e Alex Eslam è lodevole per i dinamici movimenti di camera e per l'assoluta efficacia narrativa, favorita da originali storytelling  e da una fotografia patinata molto attraente. Insomma, Trivago investe su tre piccole e ironiche perle, raffinate per manifattura e confezionamento, nonché per colonna sonora, composta da Alex Huber e Philipp Noll. Vediamoli insieme.
 
Bangkok. 1974. Sia Hotel. Camera 348. Il corto si nutre di storie mistery legate a hotel come il Fort Garry Hotel di Manitoba, il Burchianti di Firenze o il Langham di Londra, con la sua famosissima (e infestatissima) camera 333. Ma c'è anche molto 1408 di Håfström e Ghostbuster di Reitman.
 
 
 
New York. 2007. Winston Hotel. Si notano inquadrature alla Wes Anderson, simmetriche e da prospettive inedite: balza subito in mente Grand Budapest Hotel. Ma gli amanti di Tornatore come me non potranno non pensare alle spiazzanti verità che emergono nel dialogo finale fra Elena e Salvatore, in Nuovo Cinema Paradiso: Elena scrive a Salvatore il suo recapito su un foglietto appeso al muro, ma lui non lo vedrà mai.
 
 
 
Italia. 1952. Hotel La Perla. Il protagonista, Luca Temperini, sembra proprio il piccolo Salvatore (l'attore era Salvatore Cascio) di Nuovo Cinema Paradiso, neanche a farlo apposta.
 
 

lunedì 10 agosto 2015

UTOPIE E SOGNI DI PROFUGHI, OVVERO DELLA FUFFA


di FRANCESCO GALLINA


Un sudanese tenta di attraversare l'eurotunnel, ma viene arrestato prima di mettere piede sul territorio britannico.
Riporto un commento che ho pescato online.
Era a un passo dalla vittoria, dal suo utopico e desiderato sogno. Peccato.
Ora, non dirò cosa penso del sudanese o, più in generale, della massiccia immigrazione che sta riguardando l'Europa. L'Italia è piena di gente che vede il razzismo ovunque: meglio starne alla larga. Il politically correct è il  satana 2.0 che seduce le nazioni. Sicuramente uno studio approfondito della storia e un po' di sano esercizio filosofico chiarirà a tali soggetti la distinzione fra "razzismo" e "pensiero articolato su una delle più mal gestite piaghe del nostro tempo". Non parlerò nemmeno del manicheismo che c'è sull'argomento: da un lato chi vorrebbe affondare i barconi, dall'altro chi vorrebbe fare entrare chiunque nel proprio territorio con la scusa che sono tutti poveri disgraziati e che siamo tutti sulla stessa barca, non facendo le dovute distinzioni. Fra noi e loro? No, fra gli africani stessi. L'Africa è un continente molto più variegato dell'Europa e non tutti gli stati si trovano nelle medesime condizioni. Banale dirlo? Mica tanto. In quanti sapremmo stilare una panoramica storico-politica dell'Africa degli ultimi vent'anni? Sapremmo distinguere chi è veramente in pericolo e chi no. Il Sudan, ad esempio, si trova in una situazione di violentissimo attrito con il Darfur.
Ma ritorniamo al commento del lettore, il quale giudica l'atto del trasferirsi in un altro punto della terra come una vittoria, come un sogno. Analizzando più a fondo che cos'è davvero il desiderio, beh... desiderare - se prendiamo alla lettera il termine desiderio - non è granché di auspicabile: deriva dal latino de-sidera, cioè puntare alle stelle, volere ciò che è difficilmente raggiungibile, appetire un qualche cosa che manca e che, si crede, una volta raggiunto, porterà alla piena felicità. Ma è una falsa credenza. Raggiunto l'obiettivo, il desideroso desidererà ancora qualcos'altro. E raggiunto il qualcos'altro, qualcos'altro ancora. Insomma, si è di fronte a una serpe che si gonfia alimentandosi delle proprie mancanze, che sogna vengano riempite ed e saziate. Il desiderio, se non ragionato e ragionevole, può essere molto ingenuo, nonché pericoloso. È possibile e naturale che il profugo si faccia un'idea sbagliata di dove vuole soggiornare, magari pensa che troverà il paradiso, e invece non è così. Si arriva perciò a proteste indecorosamente pretenziose come quella di ieri a Licola, che ha visto un gruppo di migranti gettare in strada materassi e arredamenti di un hotel, perché non ci vivono bene. All'ingresso dell'hotel c'è proprio scritto: "Il tuo sogno è realtà." Un par de ciufoli. Cosa dedurne?
La ricerca spasmodica di raggiungere un fine - in tal caso la terra promessa - non genera alcuna soddisfazione, ma solo la stessa reiterata insoddisfazione.
Ora, assumete, per un istante, i panni del sudanese incallito. E immaginate anche di oltrepassare l'eurotunnel: siete arrivati in Inghilterra. Mettiamo pure che non vi arrestino: sarà molto difficile, la polizia inglese non è così scema e se vi becca sono cavoli amari. Non sapete un'acca di inglese, perché la vostra lingua è quella che si parla in Sudan, cioè l'arabo. Come dire: provate a dialogare in napoletano con un bucoviniano. Voglio ridere. Ma ipotizziamo che conosciate l'inglese, o il francese. Non avete un soldo, un lavoro, un amico, un passaporto, una casa. Cosa fate? Credete davvero che il Regno Unito venga in vostro aiuto? L'Italia lo fa non conoscendo i propri margini d'azione, ma l'UK li conosce perfettamente, e non è razzista la mente di Cameron, anzi. E la Francia, con la chiusissima Le Pen: pensereste di passarla liscia? 
Quale vittoria ne ricavereste? Vero anche che non avete nulla da perdere, ma il vostro sogno si è rivelato un castello di carte. Siete nella merda, come e più di prima.
Nella vita bisogna fare i conti con la realtà. Fondamentale avere le idee chiare di quali siano le linee politiche e le leggi che regolano gli Stati. Ad esempio: un ladro deve sapere che, se in Italia la passerà liscia, negli stati dell'Isis, invece, qualora fosse braccato, dovrebbe dire addio alle sue manine e il supplizio dell'amputazione potrebbe durare anche più di un minuto. Ci sono testimonianze video a riguardo. 
Il mondo è di tutti, è vero, ma ci sono dei limiti spaziali, temporali, vitali e legali che non possono essere trascurati, così, per sembrare più buoni. Oltrepassare i limiti, illegalmente (il discorso non vale per gli emigranti regolari), comporta rischi. Sognare di oltrepassarli può essere deludente, se non mortale. Bisogna scegliere con giudizio e non sperare negli interventi divini. D'altronde, se uno Stato diventa il pozzo entro cui riversare da un momento all'altro una parte dell'umanità, beh, di qualunque colore sia il popolo che vi si riversa, il problema si manifesta, eccome se si manifesta! Inutile nascondersi dietro un dito. Il problema è grande. Molto grande. Abbracciare la cruda realtà è, forse, la soluzione migliore, per tutti, al di là dei partiti politici, al di là dei facili slogan.
Anche questo significa essere umani.

Le utopie sono antiumane.
Le facili vittorie e gli alati sogni, dopotutto, sono fuffa.

domenica 9 agosto 2015

ISIS HACKERA LA CRUSCA, QUINDI LA LINGUA ITALIANA. DA NON SOTTOVALUTARE.


di FRANCESCO GALLINA


FLASH - Non molti se ne sono accorti, ma il sito dell'Accademia della Crusca è, al momento, brutalmente hackerato dall'ISIS, più esattamente da Phenomene DZ, che espleta il suo amore verso lo Stato Islamico.
Non può essere un caso. L'Accademia della Crusca è l'emblema e scrigno della lingua italiana e della sua storia. Chi vuole colpire uno Stato e imporre dittatorialmente il proprio dogma,  lo fa a partire dalla sua lingua, la cosa più naturale, più usata, ma anche più potente e pericolosa. Orwell docet.
Non facciamo dietrologia, ma sono piccoli segnali da interpretare per quello che sono: attacchi alla cultura del nostro popolo e, nello specifico, al massimo studioso e custode della sua lingua. Mi auguro che il sito possa riprendere la sua funzione il prima possibile. Per il bene dell'Italia. Per il bene dell'italiano. E per il bene delle mie ricerche.
Quindi, caro ISIS, vai un po' ad attaccare il sito del Ministero degli Interni, ma non quello la Crusca. Grazie.

sabato 8 agosto 2015

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: MARIO LUZI

 
 
Notizie a Giuseppina dopo tanti anni

da Primizie del deserto (1952) di MARIO LUZI
 

 Viktor Oliva, Il bevitore di assenzio (1901)



Che speri, che ti riprometti, amica,
se torni per così cupo viaggio
fin qua dove nel sole le burrasche
hanno una voce altissima abbrunata,
di gelsomino odorano e di frane?

Mi trovo qui a questa età che sai,
né giovane né vecchio, attendo, guardo
questa vicissitudine sospesa;
non so più quel che volli o mi fu imposto,
entri nei miei pensieri e n'esci illesa.

Tutto l'altro che deve essere è ancora,
il fiume scorre, la campagna varia,
grandina, spiove, qualche cane latra
esce la luna, niente si riscuote,
niente dal lungo sonno avventuroso.


venerdì 7 agosto 2015

REAZIONE A CATENA, OVVERO DELL'ALFABETIZZAZIONE IN TV

 
di FRANCESCO GALLINA 
 

L'OCSE/OCDE 2013 offre un quadro pietoso sul livello di alfabetizzazione italiana, fra analfabetismo  funzionale e di ritorno . Solo il 3.3% degli adulti italiani raggiunge livelli di competenza linguistici più alti contro l’11.8% della media dei 24 paesi partecipanti ed il 22.6% del Giappone, il paese in testa alla classifica. Il 26.4% raggiunge il livello 3 di competenza linguistica, mentre il 27.7% degli adulti italiani possiede competenze linguistiche di livello inferiore, contro solo il 15.5% della media dei paesi partecipanti.
 
Potrebbe saltare per la testa la domanda: che ruolo ha la scuola in tutto questo? Non basta sedere sui suoi banchi per essere alfabeti, laddove per alfabetismo intendiamo non solo la conoscenza dell'alfabeto, ma la degna conoscenza di ortografia, grammatica, sintassi. Magari anche uso corretto della punteggiatura, se resta tempo. E il lessico? Sappiamo che , su circa 47000 parole, sono poche migliaia quelle largamente usate e sappiamo altresì che, se vogliamo farci capire da un vasto pubblico, parole come veemente o rapsodico è meglio lasciarle perdere. Buona parte della TV, telegiornali compresi, per ignoranza o necessità, o inventa abominevole latinorum o schiaccia il bagaglio lessicale sulle solite parole usa e getta: ce lo insegna persino il LIT (Lessico dell'Italiano Televisivo), limitato alle tre reti RAI, ma ugualmente interessante per comprendere lo stato delle cose.
 
Sono lontani i tempi di Manzi. Eppure c'è un programma che, a differenza dei soliti quiz televisivi, attribuisce dignitosa importanza alle parole, perché di sole parole è fatto. Sto parlando del quiz estivo di Rai1, Reazione a Catena, condotto ogni sera dalle 18.45 alle 20 dall'amabile Amadeus. Al giocatore non si chiedono strettamente nozioni di cultura generale, ma una salda conoscenza delle parole, dei loro sinonimi e contrari, varianti e sfumature, collegamenti e associazioni. Ogni estate sono circa 6000 le associazioni che fanno del preserale un momento di svago molto amato dagli italiani. Svago, però, unito a sana concentrazione. Catene e giochi di parole sono spesso non indifferenti per  livello di difficoltà e ingegnosità di ideazione da parte degli autori. Qui sta il bello.

Se ne consiglia la visione ai grandi, ma soprattutto a bambini, dalle elementari in poi. Perché, da grandi, non è solo il 110 e Lode a fare la differenza ma, prima di tutto l'uso sapiente, ricco, ragionato e convincente della parola. Masticare parole stracce come comunque, cosa, bello, tipo, non ci rende persone appetibili. 
 
Nel bambino, tablet e i-phone non portano altro che intontimento e mutismo; la TV, invece, se si sa discernere nell'ammasso di catodica porcheria, riesce ancora a offrire giochi e spunti interessanti. Anche per le cosiddette fasce protette. 
Eccetto il sempre lodevole - ma di nicchia - Rai5, solo raramente la RAI si ricorda di essere servizio pubblico. E fare servizio pubblico è, in primis, insegnare la lingua italiana agli italiani, perché l'Italia, cari miei, è ben lungi dall'essere unita, soprattutto linguisticamente. Reazione a Catena, con il suo format accattivante, funge da originale settimana enigmistica, invitando lo spettatore a fare attenzione all'uso corretto e calibrato delle parole. La parola, nuda e cruda, ne è la protagonista assoluta.
 
Adatto a chi vuole scoprire nuove curiosità legate a parole anche d'uso comune. Adatto a chi ha quarant'anni e ha il bagaglio lessicale di un bambino di otto. Persino adatto anche agli scrittori e poeti emergenti in crisi d'identità. Ma non miracoloso: è pur sempre un quiz per la TV generalista.
 
Insomma: parlate, e vi dirò chi siete.

giovedì 6 agosto 2015

I SILENTIA LUNAE, OVVERO DELLA BUONA MUSICA ANTICA


di FRANCESCO GALLINA


Mandolino Vinaccia 1901
Oggi, a un mese esatto dall'apertura del blog, sono lieto di condividere con voi l'intervista che ho fatto al soprano Maria Caruso,  co-fondatrice dei Silentia Lunae, un eclettico ensemble di musica antica. Con grande piacere per le mie orecchie avvezze al classico, sono andato ad ascoltare Bacco e Arianna, uno dei magnifici appuntamenti di Summer Kermesse, che i Silentia Lunae propongono a Parma per la seconda estate consecutiva. Per il mese più torrido dell'anno, una rassegna musicale freschissima che ha anche il nobile scopo "collaterale" di far rivivere angoli di Parma poco conosciuti o deturpati dal vandalico bivacco, come il Tempietto d'Arcadia nel Parco Ducale, dove fra l'altro si esibirà domenica 9 agosto alle ore 19.30.   Per ulteriori informazioni consiglio di visitare il sito http://violadagamba9.wix.com/summerkermesse2.

Al termine del secondo concerto tenutosi alla Pinacoteca Stuard domenica 2 agosto 2015, Maria mi concede gentilmente il suo tempo. Dietro di noi, ci tiene d'occhio un'accigliata e bellissima Giuditta dipinta da Lavinia Fontana. Attorno a noi una tiorba, un violino, una viola da gamba e uno splendido mandolino Vinaccia 1901.
Benvenuta su BusillisBlog, Maria! Partiamo dal nome. I silenzi della luna: perché?
E’ una domanda di tipo esistenziale, quella sul nome: il nome infonde le sue qualità alle cose, o sono le cose, con le loro qualità, a far scaturire una parola/suono che le indichi per quel che sono? Il nostro nome è nato per caso, come molto spesso accade: un musicista che all’epoca della prima formazione suonava con noi leggeva in quel periodo “Per amica Silentia Lunae”, di W.B. Yeats, un poeta visionario che anche a me piace molto. Allo stesso tempo, è una citazione virgiliana dall’Eneide: la calata dei Danai. Forse è strano che il nome di un gruppo musicale possa nascere da due cose così eteree e senza apparente sostanza come l’idea del silenzio e l’idealizzazione della Luna, mondo dell’incorporeo spirito sottile e del femminile. Eppure, il nome ci ha portato bene, e coglie una visione che alla fine ci ha aiutati a crescere artisticamente: prima del suono, deve esistere un silenzio, e cioè devono esserci idee, riflessione, studio e un tempo di incubazione necessari alla produzione del suono. Il suono, semmai, nasce come parte finale di un lavoro sommerso. Il mondo della Luna ci rimanda a tutto l’immaginario dell’Ariosto con Astolfo e la sua follia, e il rinsavire.
Chi siete e qual è la vostra formazione artistico-musicale?
Vorremmo essere un polo di attrazione e uno spazio di ricerca per la musica antica, e cerchiamo di catalizzare talento e forze per realizzare progetti unici. Siamo persone in continua evoluzione. Dalla prima formazione di quartetto siamo cresciuti moltissimo, grazie alle fitte collaborazioni artistiche. Ad un certo punto del nostro cammino, circa due o tre anni fa, abbiamo compreso che Silentia Lunae, come associazione e come ensemble, può essere molto flessibile, e far affidamento sulla partecipazione rodata di un buon numero di musicisti che non vivono necessariamente a Parma, ma provengono da altre città o fanno parte di altri ensemble. Siamo quindi diventati una base da cui partono progetti musicali molto vari: dal momento che ogni epoca e repertorio richiedono una particolare cura dell’organico strumentale, questo ci rende capaci di spaziare parecchio. La musica antica è un campo vasto, i materiali musicali coprono le epoche dal Medioevo fino alla tradizionale data della morte di Bach, 1750. Noi espandiamo il concetto di musica storicamente informata anche al classicismo e primo romanticismo, fino a Paganini, per intenderci, e nella nostra ricerca includiamo le raccolte “folk” del 700 e 800 di area anglofona. Ovviamente, un musicista che suona la viella, o il salterio a muso di bue per la musica medievale, non suonerà il cembalo per il barocco francese, per intenderci. Quindi, curando personalmente la ricerca e gli organici attingo al nostro bacino di collaborazioni e coordino questo aspetto, di volta in volta facendo ricorso a professionalità e talenti diversi. Siamo flessibili in funzione della nostra ricerca, ma non siamo “camaleonti” per quanto riguarda discorsi commerciali o di convenienza. Siamo fuori dai circuiti.
Quanto è importante per voi il rispetto filologico del testo musicale? Quale ruolo rivestono le fonti?
Le fonti sono semplici tracce, canovacci che si può anche ignorare, conoscere parzialmente, o addirittura non conoscere? Oppure il testo è la materia stessa del nostro fare musica? A detta di molti oggi, ci si può allontanare dal testo per conquistare un pubblico, ricorrendo a manovre molto commerciali. Bisogna dire che stiamo vivendo una fase successiva a quello che negli anni ’80 fu la grande esplosione della musica antica: fu un periodo di grande diffusione, popolarità, che portò alla ribalta quelli che oggi sono i grandi gruppi storici. Ma, dopo questo periodo, come forse si poteva immaginare, la musica antica per chi è giovane ha iniziato ad essere un’idolatria della discografia e ha smesso di essere uno studio delle fonti. Non nascondo che provo molto fastidio quando sento, anche tra professionisti affermati, discussioni sulle esecuzioni musicali e le incisioni col solo scopo di indicare quale sia l’incisione migliore,


di riferimento: il riferimento sono le fonti. Poi ci sono incisioni bellissime e utili da ascoltare. Il risultato di questi anni recenti è il proliferare di un sottobosco di imitatori, seguaci di grandi nomi, e ibridi mostruosi: le contaminazioni fatte per il solo scopo di riempire i teatri, di vendere. Onestamente, ci siamo passati anche noi, e anzi, paradossalmente, proveniamo da quel sottobosco in cui agli inizi siamo rimasti per un po’, e molto in buona fede, con l’entusiasmo di chi inizia e scopre una bella cosa. Fortunatamente, qualcosa è successo e per me è stato un richiamo alla necessità di prendere una decisione: bisogna avere il coraggio di seguire la propria strada quando è difficile. Sono tornata a scuola, ho ripreso a studiare, non senza enormi sacrifici, alla mia età.  Bisogna anche proporre i repertori diversi con onestà intellettuale: l’antico è l’antico, il folk è il folk, e se si incrociano in molti punti, c’è da dire che entrambi i repertori vanno rispettati e compresi per ciò che sono. Non penso che non si possano fare molte cose diverse allo stesso tempo, anzi. Ma nel fare ognuna di queste cose, cerco di trovarne la sorgente, di proporne l’essenza, di creare il discorso costruito su una ricerca proprio perché sono passata attraverso questa grande trasformazione, da “seguace” di influenze e correnti, a pensatrice indipendente, e ne sono molto contenta.
Il vostro repertorio è vastissimo, ma proponete preferibilmente musica antica, medievale, folk e barocca-rococò. Quali i compositori che più amate? Quali correnti e forme poetico-compositive prediligete?
Vorrei chiarire un aspetto importante: un repertorio non è mai interamente di chi lo suona. La bellezza del mondo che proponiamo è che il repertorio è vastissimo, e basta guardarsi intorno, scegliere. Tante cose affascinano per motivi diversi, tante scelte musicali sono valide, e tutte sono legittime. Per me è molto importante l’approccio alla musica e che alla base ci siano curiosità, passione, sapiente studio e tanta umiltà. E’ necessaria anche flessibilità tecnica, sugli strumenti diversi e anche con la voce come mezzo espressivo. Per me, ogni compositore è un mondo da scoprire, e se lo propongo al pubblico è perché lo amo profondamente, e quasi in maniera ossessiva: ne conosco la vita, la storia, e le note. Sono molto affascinata dalle figure di Christopher Simpson e Tobias Hume, autori inglesi tra Cinquecento e Seicento per la viola da gamba con personalità interessanti. Simpson, lo si intuisce anche da ciò che scrive, dai suoi ritratti, era introspettivo, colto, estremamente raffinato e un virtuoso eccezionale. Hume era uno straordinario musicista molto avanti per i suoi tempi, e la sua musica è generosa e sanguigna a tratti, e allo stesso tempo rarefatta e ultraterrena. Sento molto vicina alla mia indole segreta la musica Speculativa, e cioè tutta quella musica contrappuntistica che è prima di tutto un esercizio per la mente, ma raramente riesco a proporla: è la grande incompresa del nostro tempo, si pensa che sia difficile da ascoltare, e invece ha una carica enorme di emozione in sé. Amo particolarmente il repertorio inglese e francese: la mia formazione negli Stati Uniti mi ha portato a sviluppare il bilinguismo e il polistrumentismo e cantare il repertorio inglese


rinascimentale e barocco è un piacere naturale per me, da Dowland, Campian, Ravenscroft a Purcell. Invece la musica francese mi ha sempre catturata molto per la freschezza fusa all’eleganza e le raccolte di Air de Cour di Gabriel Bataille sono un esercizio quotidiano per sviluppare l’eleganza nel fraseggio, e comprendere il meccanismo dell’ornamentazione funzionale alla musica e non fronzolo esteriore. Amo leggere dalle stampe dell’epoca quando sono belle come quelle di Bataille, e le preferisco molto alle trascrizioni moderne: uso il più possibile copie di spartiti dell’epoca, li trovo comunque più utili per molti aspetti e, non ultimo, comprendere il carattere di un’epoca e di uno stile anche dalla stampa stessa della musica.

Ultimamente, sono molto grata al mio maestro di viola da gamba, Roberto Gini, per avermi incoraggiata ad affrontare un repertorio importante con Jean Baptiste Forqueray, che incute timore: mi sento in ottime mani, e mi fido di lui.
 Tra le forme poetiche e compositive, metto al primo posto l’umile villanella: testi amorosi semplici e immortali, forma essenziale asciutta, poche cose, ma tutta musica eccezionalmente viva. I miei preferiti sono Kapsberger e Falconieri, anche per le vicende delle loro vite.
Amate esibirvi in luoghi non sempre canonici, come musei, pinacoteche e gallerie d’arte, proponendo interessanti percorsi trasversali fra musica e immagine. Qual è il vostro rapporto con l’arte figurativa? Quali legami tematici o di senso intendete istaurare?
Sono una persona molto legata all’aspetto visivo della vita, dipingo e fotografo molto. Mio padre è un appassionato di archeologia e spesso ci portava a vedere scavi, musei, pinacoteche, e ricordo con immensa nostalgia tutte le chiacchierate con lui, ormai più rare, nei bellissimi musei e scavi della Campania. Richard, liutista, con cui

festeggiamo quest’anno 25 anni di matrimonio e musica, costruisce strumenti, è liutaio e le sue creazioni si basano su iconografia. Il legame con l’arte figurativa è quindi molto forte e concreto. A volte i progetti e le idee per un concerto nascono dall’arte, dai luoghi stessi in cui proponiamo un programma. Sono progetti studiati per valorizzare beni artistici, ma non solo, perché cerchiamo di costruire un rapporto con quelle istituzioni sul territorio con cui possiamo realizzare un discorso che includa i luoghi e l’arte insieme alla musica. Ma il discorso va molto oltre: musica e immagine sono un linguaggio potente, colpiscono l’immaginazione. La stoffa di cui è fatto l’abito della musica antica è l’immaginario, il Mito, lo slancio verso un ultraterreno misterioso, l’anima, e la musica e l’arte figurativa si evocano a vicenda con richiami spesso non solo fortissimi, indivisibili l’uno dall’altro.
Sento questa cosa con molta forza, anche perché amo dipingere, e così come nella musica uso le mani e il corpo, anche nella pittura ho in mente un forte senso di corporeità. Gli artisti che mi ispirano però appartengono ad epoche diverse tra loro: Bernini, Dosso Dossi, Tiziano, Dalì, Hopper, Edward Burne Jones, ma in realtà sono tantissimi. Non ultimo, un caro amico scomparso di recente e sconosciuto ai più, Giona Ciavola – interessantissimo e arguto.
Nel suo splendido libro Passeggiate nei prati dell’eternità (Mursia, 2013), Valeria Paniccia esalta i cimiteri monumentali come luoghi pregni di storia e splendore artistico-architettonico. Tu, a proposito, curi visite tematiche nel Cimitero della Villetta di Parma. Quanto è importante la rivalutazione di questi luoghi? Quali interessanti personaggi si annidano nel nostro cimitero?
Ho conosciuto Valeria Paniccia al Cimitero della Villetta, e ripensandoci, è un vero onore dal momento che lei nei cimiteri monumentali un po’ in tutto il mondo ha passeggiato con José Saramago, Gae Aulenti e tanti incredibili personaggi. Il suo libro è molto bello, me lo regalò alla fine di una giornata che rimarrà nei ricordi belli di un incontro con una persona squisita. A Parma, da anni, curo la parte musicale di varie visite tematiche al Cimitero della Villetta, e in particolare il percorso che presenta i musicisti famosi lì sepolti, da Paganini, a Bottesini, Campanini, Silvani, Pizzetti, Dacci, Migliavacca. Invece di parlarti di quanto sia importante questo lavoro culturale, vorrei parlarti delle anime che ci ho incontrato, poiché sono molto sensibile e mi impressiono facilmente e spesso mi è sembrato di catturare storie di vite, scorgere volti, sorrisi, e nei sogni di rivedere anime buone. Ma questo è perché il nome della poesia di Yeats ha il suo effetto su di me. Inizialmente quando mi chiesero di fare questa cosa anni fa ebbi un attimo di sgomento di fronte all’ipotesi di suonare al cimitero. I momenti curiosamente divertenti non sono mancati, come quella volta che durante le prove di un concerto serale rimanemmo chiusi dentro per un po’. Il silenzio dei cimiteri infonde uno strano senso di pace mista a terrore, e la parola che mi

sorge spontanea a riguardo è entrarvi con rispetto. La musica, unita alla grandissima ricchezza dell’arte scultorea, dei mosaici, e in generale della storia di Parma, fanno di questi percorsi un’esperienza unica. Il pubblico ha sempre partecipato generosamente, e con un’attenzione che raramente oggi si trova perfino in sala da concerto. Considera che il percorso musicale ha momenti molto toccanti, quando ad esempio dalle melodie sublimi di Paganini, si arriva al Paganini dei Poveri, il violinista cieco Augusto Migliavacca, cui la città pose il monumento funebre con una colletta sulla Gazzetta di Parma, e in un inverno gelido in cui il violino gli si spaccò dal freddo, sempre con la colletta, glielo ricomprò.
La vostra musica, almeno nel Bel Paese, è decisamente borderline rispetto al monotono circuito commerciale, ma proprio per questo risulta molto stimolante. Qual è, in generale, la ricezione che questo repertorio ha in Italia? E all’estero?
E’ un paradosso, se si considera che tantissimi giovani arrivano in Italia per studiare il patrimonio artistico e musicale nostro. Ultimamente, ci sono difficoltà enormi e nessuno può negarlo o nasconderlo, ma non si tratta solo di difficoltà economiche, o meglio, penso che la difficoltà maggiore sia un’altra: la demolizione sistematica della cultura, della scuola, dell’educazione al pensiero critico indipendente, per cui non si riconosce più in sé un legame profondo col patrimonio di musica, arte, architettura e paesaggio. Si cerca l’intrattenimento facile, quello che ha da lungo tempo varcato i suoi naturali confini, per divenire unica fonte di nutrimento per molti. Non voglio salvare l’estero a scapito dell’Italia, e vedervi a tutti i costi qualcosa migliore di ciò che noi siamo ed abbiamo, anche perché, avendo vissuto dieci anni della mia vita all’estero, ormai sono convinta che l’estero, in realtà, non esista. L’estero è quel paese dove non siamo in noi.
Il luogo più bello dove vi siete esibiti?

Personalmente ho un misto di bei ricordi sia per i miei concerti solistici che con Silentia Lunae, per un po’ ho cantato anche in produzioni liriche (con Zeffirelli e Domingo) nei maggiori teatri italiani di tradizione. I posti belli sono tanti: splendide sale vittoriane, come la Victorian Mansion di Portland, e la State House del Governatore del Maine, e chiese monumentali del New

England; Spoleto e il principesco Schloss Eggenberg di Graz, e Il Teatro Farnese, la Galleria Nazionale, la Camera di San Paolo, il Palazzo di Riserva, la Pinacoteca Stuard di Parma, il bellissimo Magnani di Fidenza, il Cortile d’Onore della Casa della Musica di Parma, e il Chiostro del Conservatorio di Venezia, la Chiesa di Santa Barbara a Mantova, il Complesso Monastico Polironiano, tante Pievi del territorio parmense, il Castello di Spezzano a Fiorano Modenese, Brera, il Teatro Fraschini di Pavia, e non ultimo, il Tempietto del Parco Ducale di Parma.

Il posto più bello in assoluto dove abbiamo fatto musica però è come volontari e coordinatori di un programma di musicoterapia e ricreazione per cinque anni nel Maine, nelle case di riposo e gli ospedali, e poi in Italia con i ragazzi autistici, e con i bambini della scuola Elementare Don Milani a Parma. Lì ho i ricordi più umani, e lì mi ricordo i volti delle persone nel pubblico. Non è retorica, chi mi conosce sa che ho svolto quel lavoro con impegno e spesso chiedendomi, dove mi sembrava di non riuscire a trasmettere nulla, che senso avesse. Da tutti loro ho ricevuto qualcosa che ha arricchito la mia musica e spero di avergli dato qualcosa di bello e utile.
Siete in contatto con altri ensemble italiani sulla vostra lunghezza d’onda in quanto a repertorio e forme espressive? Lavorate anche a fianco di danzatori…
Siamo sempre tutti un po’ in contatto, perché il nostro mondo è piccolo. Oggi apprezzo molto il social network, e in particolare Facebook non solo per tenermi in contatto: è una vera agorà con scambi di idee interessanti dove a volte si scoprono aspetti umani e le idee dei colleghi musicisti più che in altre circostanze. Interagisco molto, siamo tutti persone curiose e comunicare è essenziale. In realtà non ci sentiamo più un “ensemble” in maniera
tradizionale, come dicevo prima. Silentia Lunae è un catalizzatore, abbiamo il karma, se uno ci crede, della materializzazione improvvisa e miracolosa in tempi difficili. Mi interessa essere su una lunghezza d’onda con le persone dietro ai musicisti. Quando c’è quel contatto umano, si crea una scintilla da cui scaturisce sempre ottima musica. Apprezzo moltissimo chi si dedica alla danza, forse anche perché non so danzare. Il lavoro insieme è costruttivo, e negli ultimi anni ho molto apprezzato, tra tutti i collaboratori, Clara Armani e Maurizio Lucchetta per la grande professionalità e capacità tecnica e interpretativa. Lavorare con la danza richiede molta attenzione agli equilibri tra movimento corporeo e il muoversi della musica, è un ottimo esercizio per chi suona e mette in contatto con quella grazia innata che gli inglesi chiamano “lilting”, l’oscillare vagamente irregolare del tempo col corpo, la vera “inegalité” della musica barocca.