domenica 24 gennaio 2016

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: EUGENIO MONTALE



di FRANCESCO GALLINA


Disabili fisici e mentali, omosessuali e delle lesbiche, della strage degli zingari, dei testimoni di Geova, prigionieri politici. Non furono deportati solo gli ebrei, come la storia annacquata tende ad insegnarci. La pulizia etnica hitleriana fu radicale e non riguardo il solo popolo ebraico, da un punto di vista numerico certamente il più tartassato. In vista del 27 gennaio, #busillisblog non sceglie una poesia patetica sull'Olocausto, perché la Shoah non merita né considerazioni pietiste né nazionalistiche, ma osservazioni storicamente corrette ed esaustive. Ricordare un evento solo perché tragico, di per sé, non serve a nulla.
E infatti la lirica di Eugenio Montale che oggi vi proponiamo non parla né di Shoah né di campi di concentramento, ma della religione nazista: quando Montale la scrive, non può ancora sapere dei campi di concentramento e di sterminio (che, per la cronaca, non sono la stessa cosa), sebbene i primi campi di concentramento per soli deportati politici risalgono al 1933. La primavera hitleriana, invece, si concentra profeticamente sull'origine di tutto: la mistificazione, l'ideologia mortifera, la fatale teologia nazista che, per un momento, sbarca a Firenze nel 1938, per stringere la mano a Mussolini, portando una metaforica folata di gelo. Il gelo che spira quando si applica matematicamente un concetto alla realtà.
Accompagniamo questo piccolo gioiello montaliano (tratto dalla Bufera e altro del 1956) con uno degli sconcertanti disegni di deportati, selezionati e raccolti in K.Z. disegni dai campi di concentramento (2014) da Arturo Benvenuti, frutto di una ricerca durata oltre 40 anni. Non sappiamo se si tratti di ebrei, ma questo non ci interessa. L'unica cosa di cui siamo certi è che si tratta di persone a cui è stata rubata la dignità, uomini ridotti a cose, numeri, feticci.


LA PRIMAVERA HITLERIANA

in LA BUFERA E ALTRO (1956) di EUGENIO MONTALE





Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,
di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.

Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio….
                                         Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince -
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud…

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