giovedì 10 marzo 2016

LE PETALOSE CONSEGUENZE, OVVERO DELLO SCRIVERE A SCUOLA


di FRANCESCO GALLINA






La scuola non insegna a scrivere. O, se lo fa, lo fa en passant, perché c'è da fare: lo Stato pretende i temini, e allora "facciamo i temini". Tutto qui. E se non c'è da fare di tutta l'erba un fascio, si ammetterà che qualche caso di docente disposto a insegnare la scrittura c'è, ma sono pochi a farlo dignitosamente. La tendenza è leggere, perché circola l'idea che si impari a scrivere solo leggendo. E invece no. Si impara a leggere leggendo, si impara a scrivere scrivendo. Sarebbe come dire che il critico d'arte, che legge e interpreta l'opera d'arte, è di per sé un artista. In altre parole: saper "leggere" la Gioconda equivarrebbe, seguendo questo fallace ragionamento, saper dipingere la Gioconda, o per lo meno saper dipingere. Che, in altre parole, è il ragionamento di tanta arte contemporanea. Ma ne parleremo altrove.

Il #busillis di oggi è la scrittura. I ragazzi non sanno scrivere. Tutti? No, la maggior parte. E chi te l'ha detto? Ho letto i loro lavori. Ma hai 23 anni! Sì, ho 23 anni, ma ho la sfiga di voler insegnare nella scuola italiana, il che mi porta a frequentare la scuola italiana e chi vi fa parte. La verità non esiste e non è una, ma le tendenze esistono, e la tendenza prevalente è che i ragazzi, oltre a non capire quello che leggono, non sanno scrivere. Non sanno tenere in piedi discorsi logici, posseggono un bagaglio lessicale striminzito, non controllano quello che scrivono. Alle superiori, così, assistiamo a catastrofici macelli, in linea con l'analfabetismo funzionale, per cui si sanno leggere le parole, ma non le si sanno capire. Ci si ferma al significante, se va bene. Se va male, non si capisce neanche quello.

Alle superiori - licei compresi - è dover ripartire da zero, o stilare giudizi sulla base di prove Invalsi. Si tende a non dare più alcun valore al significato delle parole, alle intenzioni di un autore, all'interpretazione che non sia solo un escremento di inchiostro buttato giù tanto per riempire mezzo foglio protocollo. Le analisi testuali ne sono un perfetto esempio: dotate di ogni spiegazione, chiedono informazioni già date in partenza, così che allo studente non resta che compilare una banale brodaglia ed uscirsene dagli asfissianti corridoi.

Poi passeranno tre anni, se va bene, e toccherà al professore universitario sorbirsi testi senza capo né coda, che saranno corretti, o magari no, e il laureato si troverà con voti alle stelle pur non sapendo costruire una frase. Si sta parlando di frasi, proposizioni di senso compiuto, non di Commedia dantesca. Ma sembra voler il Paradiso.

Detto questo, la maestra Margherita ha strumentalizzato quello che il piccolo Matteo ha scritto. L'ombra funesta degli adulti è evidente: i genitori che hanno messo mano al brevetto per fare soldi. Siamo passati da una cretinata ai soldi. Non male. Ah, già, poi c'è l'Accademia della Crusca, verso cui nutro grande stima ma che, in tal caso, mi sembra di essere caduta in basso. Quello che dice, linguisticamente parlando, è corretto. Ma se i bambini non sanno scrivere, di cosa se ne fanno della linguistica?

Cincinnare, sdallare, smoggoso, dondoloso, cernieroso, paceggiare, brontolite, sbrocchevole. Queste e altre cinquecento proposte sono giunte in men che non si dica alla cassetta della posta della Crusca, la quale avrà capito in quale boutade è finita. Ora, qual è la funzione della scuola italiana? Tirare in ballo la Crusca perché i genitori abbiano la meglio sui docenti quando questi danno 4 nelle miserande prove dei figli? O insegnare umilmente a partire da zero e provare a crescere, se non letterati, almeno (ed è già tanto) scrittori dignitosi? Fare cose normali, istruire. Tutto il resto è inutile, cioè petaloso.

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