di FRANCESCO GALLINA
Gli ultimi cinque pontefici hanno celebrato Dante come un - oserei dire - camerata cristiano, rendendo cristiano-ortodossa una dottrina - quella dantesca - che ortodossa non è. E lo sapeva bene la Chiesa del passato, che si è divertita a censurare la Commedia e a cacciare la Monarchia sull'Indice dei Libri proibiti senza farsi tanti problemi.
Dopo gli attentati di Parigi, sono poi saltati fuori quelli di Gherush92, Comitato per i Diritti umani che chiede con forza eliminare la Divina Commedia dalle scuole, in quanto poema discriminatorio, offensivo, razzista, antisemita e islamofobo. Evidentemente, Gherush92 non ha mai letto Dante. Altrimenti avrebbe constatato quanto Dante collochi sì Maometto fra gli scismatici, in Inf. XXVIII, ma non proferisca parola alcuna contro l’Islam, considerando Maometto come un eretico qualunque, alla stregua di fra Dolcino.
Ma procediamo con ordine.
Se è eccessivo parlare di Dante come del Sommo Poeta partorito dall’Islam (cfr. P. Di Stefano, Dante. Il sommo poeta partorito dall’Islam, in «Corriere della Sera», 31 dicembre 1999, p. 33), mi sembra degno di nota accennare alle tesi – foriera tutt’ora di infiammati dibattiti accademici – secondo le quali Dante è debitore del pensiero islamico (come sostenne per primo M. Asìn Palacios nel suo stupefacente saggio del 1919, L’escatologia islamica nella «Divina Commedia»), e in particolare del Libro della Scala (titolo originale Kitāb al-Miʽrāǵ). Scoperto solo negli anni Quaranta del Novecento, per volere di Alfonso X il Savio il libro del secolo VIII venne tradotto intorno al 1264 dalla Scuola Toledana, prima dall’arabo al castigliano, successivamente in latino e in francese antico da Bonaventura da Siena, esule toscano ghibellino e notaio alla corte del monarca di Castiglia. È possibile che Dante potesse conoscere la storia del viaggio nell’oltretomba che vede per protagonista Maometto, perché poteva averne conoscenza tramite il maestro Brunetto Latini, capo di un’ambasceria di guelfi fiorentini e intellettuale rimasto a lungo in contatto con la cultura castigliana durante il suo periodo francese. Ma è anche possibile, come sostiene Ugo Monneret De Villard nel suo Studio dell’Islam in Europa nel XII e nel XIII secolo, che “la traduzione […] facilmente poteva giungere in uno o più esemplari a Firenze per una qualsiasi via, recata magari da uno dei molti commercianti pisani che in quel tempo largamente trafficavano con la Spagna tanto cristiana quanto musulmana”.
Il Libro, nella traduzione approntata da Bonaventura da Siena, è stato edito da E. Cerulli, Il ‘Libro della Scala’ e la questione delle fonti arabo-spagnole nella Divina Commedia (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1949), ed è disponibile in traduzione italiana con testo latino a fronte nella recente edizione del 2013 a cura di Anna Longoni, per i caratteri della BUR.
In Italia, paladina della tesi è stata principalmente Maria Corti, che si è battuta nel dimostrare con un approccio critico quanto il Libro della Scala abbia rappresentato un importante modello intertestuale della Commedia. In un’intervista all’Ems, Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche Rai, dichiara: “Non c’è nessuno dei testi dati da Asìn Palacios, che si possa provare essere una fonte di Dante. Per esserlo bisogna che nel testo che è fonte e nel testo che subisce la fonte, ci siano non solo i racconti di eguali episodi, cioè corrispondenze tematiche, ma ci devono essere corrispondenze formali”. Discorso diverso vale per il Libro della Scala.
Sebbene il viaggio di Maometto è speculare a quello dantesco (l’ascesa al Paradiso precede la discesa agli inferi), molteplici sono gli evidenti punti di contatto, a partire dall’arcangelo Gabriele che sveglia Maometto dal suo iniziale stato di sonnolenza per guidarlo e sorreggerlo lungo il viaggio. Come Dante è ostacolato dalle tre fiere, anche Maometto è subito tentato da tre voci. La scala, che conduce Maometto e Gabriele dalla Terra al Primo Cielo della luna, è popolata da angeli luminosi, così come la scala di Giacobbe che porta Dante dalla settima cornice purgatoriale al Paradiso Terrestre. A questo punto, così come Virgilio è sostituito da Beatrice, Gabriele è sostituito dall’angelo tesoriere del Paradiso, Ridwan, che lo accompagna al cospetto di Dio che, al pari degli angeli e delle anime beate, è purissima claritas, metafisica della luce che causa la perdita della vista; Dante dirà in Par. XXXIII, 61 – 63: “quasi tutta cessa / mia visione, ed ancor mi distilla / nel core il dolce che nacque da essa”. L’Inferno è costituito da sette balze (la prima e l’ultima stravolte dal vento) degradanti verso la sede del Diavolo, incatenato come lo è nella Commedia il gigante Efialte (Inf. XXXI, 86 – 88). L’habitatio dyaboli ricorda la città di Dite descritta in Inf. VIII: è un castrum cinto da un valla, con muri, turres, moenia et domus omnes che sono de igne valde nigro e con una porta, per quam vadit homo ad infernum magnum, che ricorda l’“intrata” dalla quale Flegias invita Dante e Virgilio ad entrare. A proposito della nona bolgia, sede in cui giace Maometto e i seminatori di discordia, sorprendente risulta l’intertestualità fra la Commedia e il Libro della Scala, laddove Gabriele spiega a Maometto la fine di coloro qui verba seminant ut mittant discordiam inter gentes. Per la Corti non è casuale la ripresa della metafora del seminare in Inf. XXVIII, 35, dove Maometto viene definito “seminator di scandalo e di scisma”, Maometto che è dilaccato così come lacerate e squartate sono le anime infernali nel Libro. Si tratterebbe di un’“operazione ludica dantesca”, per cui “Come spesso accade, un dato, una metafora diventano per l’eccezionale e immaginazione dantesca generatori di iniziative tematiche e formali.”
Recentemente Luciano Gargan, nei suoi studi filologico-letterari raccolti in Dante, la sua biblioteca e lo studio di Bologna (Antenore, 2014), ha avanzato la tesi per la quale Dante sarebbe potuto entrare in contatto con il Libro della Scala sia nella facoltà di arti e medicina di Bologna, magari per mezzo di Brunetto Latini, ma anche nella biblioteca di San Domenico, a cui fra Ugolino, arcarius e custos dell’arca sepolcrale di san Domenico, donò nel 1312 il Liber Scalae Machometi insieme ad altri tredici testi.
Gherush92 si chiede: "Quale sarebbe il vantaggio di studiare il Maometto descritto nel canto XXVIII dell’Inferno? Quale il vantaggio di studiare il Giuda Iscariota del canto XXXIII, condannato come traditore? Come evitare il senso di imbarazzo, frustrazione, umiliazione ed offesa che i versi di Dante veicolano? Come frenare l’istigazione all’odio che da tali versi emerge dirompente?".
#busillisblog tace. Lascia ai cervelli pensanti le dovute risposte, al pensiero di critico degli studenti la libertà (e il dovere) di leggere Dante.
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