di FRANCESCO GALLINA
Visitare Torino e parlare della Mole o degli enigmi savoiardi ovunque sparsi sarebbe forse un po' troppo scontato. E allora #busillisblog vi accompagna alla scoperta di una chicca che - voci attendibili mi hanno riferito - risulta poco conosciuta dalla nuova generazione torinese. Non parleremo della Mole, no, ma il nostro racconto ha pur sempre per protagonista Antonelli, l'architetto e politico Alessandro Antonelli.
Stiamo parlando di una rarità disertata da cartelli stradali e guide turistiche. Un palazzo apparentemente normale, che potrebbe distinguersi dai suoi 'colleghi' adiacenti per i soffici e caldi toni accesi, sul giallo e rosso ocra. Di certo spicca per il suo neoclassicismo eclettico, accanto a un palazzaccio del secondo dopoguerra che ospita un piccolo centro fitness. Ma la sua particolarità non è questa, e nemmeno l'essere stato covo di radicali e carbonari, o luogo in cui Niccolò Tommaseo elaborò il suo monumentale Dizionario della Lingua Italiana.
Alle radici di questo palazzo, all'angolo fra Corso Maurizio e Via Giulia Barolo, c'è una scommessa. O meglio, una ripicca. Progettati alcuni edifici abitativi nel quartiere di Vanchiglia, ad Antonelli viene offerto un esiguo lembo di terreno: lui, al vicino proprietario, ne chiede di più, per costruirci un palazzo, ma le sue richieste sono programmaticamente ignorate. E allora decide che il palazzo si costruisce lo stesso. L'idea è stramba, il progetto assurdo, se non - ai tempi - giudicato ridicolo. Non c'è un solo uomo che creda nella stabilità di un palazzo un cui lato è di soli 54 centimetri. A crederci è il suo fautore, l'unico che vi si stabilisca insieme alla moglie, Francesca Scaccabarozzi.
Avete capito bene. 54 cm. Casa Scaccabarozzi, è un palazzo alto circa 27 metri e di lato 4,35mX16mX54cm, costruito su nove piani, di cui due sottoterra. Un triangolo, praticamente, se non che i 54 cm sono stati fondamentali per inserirvi la canna fumaria. Nessuno ci avrebbe scommesso una lira: quella casa sarebbe dovuta crollare; troppo esile, filiforme, paradossale, per restare in piedi. Eppure eccola, quella che la storia ci ha tramandato come la Fetta di polenta, per il suo colore, per la sua forma. Sopravvissuta a un'esplosione del 1852, al terremoto del 1887. Grazie alla qualità dei materiali e alle profonde fondamenta, resta incolume persino ai bombardamenti su Torino durante la Seconda Guerra Mondiale.
Entrando da Corso Maurizio c'è il rischio di non accorgersene. Ma basta puntare il naso verso il cielo, e la sorpresa è tanta, fra bugnato, lesene e balconcini aggettanti. Ci sarebbe da domandarsi se, a distanza di cinquant'anni, il Flatirion Building della Grande Mela non si sia ispirato di soppiatto al progetto dell'Antonelli. Le storie sono simili. Anche il "ferro da stiro" di New York, agli inzi del '900, venne guardato con estrema diffidenza per la sua punta larga solo 2 metri. Chissà se Daniel Burnham, il suo ideatore, non fosse a conoscenza della Fetta di polenta. Nel caso, Antonelli lo vince per virtuosismo e audacia.
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