sabato 20 febbraio 2016

PERCHÉ NON PIANGERE DELLA MORTE: UMBERTO ECO.




di FRANCESCO GALLINA


Umberto Eco è morto. E giù di lacrimevoli coccodrilli dagli Appennini alle Ande. Ora, anche chi non avrà mai letto una sua pagina, si sentirà costretto a citarne un aforisma preso a caso sul Web, come va di moda fare quando muore un'auctoritas. Non sapendo che, facendo ciò, si tradisce proprio il pensiero anticonformista di Eco, che prima dell'avvento in Italia di Bachtin, ci dimostra come ridere delle autorità non sia solo giusto, ma rivoluzionario. Il riso è carnascialesco, è espressione di rifiuto, è l'antitesi del perbenismo. Sono certo che davanti al suo feretro, Eco, ci avrebbe voluto come Franti. E ne sarebbe stato felice. #busillisblog dedica eccezionalmente la sua consueta rubrica di poesia del sabato a una delle pagine in prosa più dissacranti di Diario Minimo (1963), il primo riuscitissimo tentativo di beffare l'autore del patetico e del buonismo per eccellenza: Edmondo De Amicis. 





ELOGIO DI FRANTI* 

*Se ne propongono alcuni estratti.


"E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un'altra sezione." 

Così alla pagina di martedì 25 ottobre Enrico introduce ai lettori il personaggio di Franti. Di tutti gli altri è detto qualcosa di più, cosa facesse il padre, in che eccellessero a scuola, come portassero la giacca o si levassero i peluzzi dai panni: ma di Franti niente altro, egli non ha estrazione sociale, caratteristiche fisionomiche o passioni palesi. Tosto e tristo, tale il suo carattere, determinato al principio dell'azione, così che non si debba supporre che gli eventi e le catastrofi lo mutino o lo pongano in relazione dialettica con alcunché. Franti da Franti non esce; e Franti morirà: "ma Franti dicono che non verrà più perché lo metteranno all'ergastolo", si scrive il lunedì 6 marzo, e da quel punto, che è a metà del volume, non se ne farà più motto. Chi sia codesto Enrico è sin troppo risaputo: di mediocre intelletto (non si sa che voti prenda né se riesca promosso a fine anno), oppresso sin dalla più tenera infanzia da un padre, da una madre e da una sorella che gli scrivono nottetempo, come sicari dell'OAS, lettere pressoché minatorie sul suo diario, egli vive continuamente immerso in umbratili complessi, un po' diviso tra l'ammirazione prona per un Garrone che non perde occasione per far della bassa retorica elettorale ("Son io!" e il maestro, babbeo: "Tu sei un'anima nobile!"; e se qualcuno dà noia al supplente, subito Garrone dalla parte del potente e dell'ordine: "guai a chi lo fa inquietare, abusate perché è buono, il primo che gli fa ancora uno scherzo lo aspetto fuori e gli rompo i denti!", così il supplente rientra e vede tutti zitti, lui, Garrone, con gli occhi che mandavan fiamme "un leoncello furioso, pareva" - e gli dice "come avrebbe detto a un fratello" ti ringrazio Garrone, e via, Garrone è a posto per tutto l'anno, ditemi se non era figlio di mignotta) e d'altro lato una sorta di attrazione omosessuale per il Derossi, che è "il più bello di tutti", scuote i capelli biondi, prende il primo premio, si fa baciare dal giovane calabrese e sembra insomma certi personaggi dei libri di Arbasino. [...]

E la domenica 11 ottobre, e il martedì 14 costui scriverà ancora una lettera guerrafondaia al figlio, parlando di Roma meravigliosa e eterna, di Patria sacra, di sangue da donare e ultimo bacio alla bandiera benedetta; e sempre senza la minima chiarezza ideologica, sì che a distanza di pochi giorni intesse con il medesimo tono l'elogio di Cavour e di Garibaldi, dimostrando di non aver capito nulla delle forze profonde che divisero il nostro Risorgimento. E ti educava così questo figlio alla violenza e alla retorica nazionale, all'interclassismo corporativista e all'umanitarismo paternalista, sì che svolgendosi la vicenda nell'ottantadue, possiamo immaginarci Enrico interventista quarantenne (e quindi a casa, da tavolino), all'inizio della guerra, e professionista fiancheggiatore delle squadre d'azione nel ventidue, lieto infine che il Paese sia andato in mano a un uomo forte garante dell'ordine e della fratellanza. Il Derossi a quell'epoca era già morto sicuramente in guerra, volontario, caduto scagliando la sua medaglia di primo della classe in faccia al nemico, Votini era passato spia dell'Ovra e Nobis, che doveva avere possedimenti in campagna, e già da piccolo dava dello straccione ai figli di carbonai, agrario fiancheggiatore delle squadre, sicuramente era già federale. C'è da sperare che il muratorino e il Precossi si fossero almeno presi il loro olio di ricino e tramassero nell'ombra; e forse Stardi, sgobbone com'era, si era letto tutto il Capitale, senonaltro per puntiglio, e quindi qualcosa aveva capito; ma Garoffi di certo si era allineato e non faceva politica, e Coretti, con quel padre che gli passava calda calda la carezza del Re, chissà che non facesse la guardia d'onore all'Uomo della Provvidenza. [...]

"E quell'infame sorrise". Ma se vogliamo giocare a questo gioco allora giochiamo. Franti non ha sostrato, non si sa come nasca e come muoia, egli è l'incarnazione del male? Ebbene sia, accettiamolo come tale e come tale vediamolo, elemento dialettico nel gran corso della vita scolastica deamicisiana, momento negativo in tutta la sua evidenza trionfante. Ma prendiamolo come tale, e non lasciamoci confondere dai piccoli particolari di contorno: che se Franti non ha sfondo sociologico non devono averlo neppure le persone di cui egli pare prendersi beffa, la mamma di Crossi che egli scimmiotta nella sua condizione di erbivendola, e il muratore caduto sul lavoro al passaggio del quale Franti sorride: se facciamo della demagogia sul muratore e sull'erbivendola, allora facciamola anche su Franti e sulle determinazioni economiche della sua perfidia. Se no accettiamolo come un principio senza fondo e senza storia, e affrontiamolo pensando che di lui Enrico ci abbia parlato come gli storici romani dei cartaginesi: che erano popolo industre e laborioso, gran mercanti e navigatori, ma siccome non possedevano un'industria culturale non commissionavano elogi e libelli, mentre i romani, meglio organizzati quanto a uffici studi, avevano buon gioco a affidare alla storia terribili notizie sul conto dei nemici, dicendo che mettevano i bambini nel ventre di una statua infuocata; che se poi loro, i conquistatori, distruggevano Cartagine e spargevano sale sulle rovine, quello era ben fatto. [...]

Ciò che Franti fa è vario e assai complesso: sale su un banco e provoca Crossi, e fa male, ma quando Crossi gli tira un calamaio egli fa civetta, e il calamaio va a colpire il maestro che entrava. Civetta meritoria quant'altre mai, dunque, perché questo maestro è lo stesso ributtante leccapiedi che in un diverbio tra Coraci (il calabrese) e Nobis, dà ragione a Coraci e torto a Nobis, ma a Nobis dà del voi mentre a Coraci dà del tu. Dà del tu anche a Franti, naturalmente, perché costui non ha un padre distinto con una gran barba nera. Più avanti vediamo Franti che ride mentre passa un reggimento di fanteria; Enrico tiene a precisare che Franti "fece una risata in faccia a un soldato che zoppicava", ma non si vede perché in una sfilata preceduta dalla banda (come Enrico ci dice), qualche colonnello autolesionista avrebbe infilato un soldato che zoppicava. Dunque verosimilmente il soldato non zoppicava, e Franti irrideva la sfilata tout court: e vedete che la cosa cambia già aspetto. Se poi si considera che, istigati dal direttore, i ragazzi salutano militarmente la bandiera, che un ufficiale li guarda sorridendo e restituisce il saluto con la mano e un tizio che aveva all'occhiello il nastrino delle campagne di Crimea, un "ufficiale pensionato", dice bravi ragazzi, allora ci accorgiamo che il riso di Franti non era poi così gratuitamente malvagio ma assumeva un valore correttivo: costituiva l'ultimo grido del buon senso ferito di fronte alla frenesia collettiva che stava prendendo i ragazzi che già cantavano "battendo il tempo con le righe sugli zaini e sulle cartelle ' e con "cento grida allegre accompagnavano gli squilli delle trombe come un canto di guerra". E' in circostanze del genere che Franti sorride e ride: "Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei Funerali del Re; e Franti rise". Franti sorride di fronte a vecchie inferme, a operai feriti, a madri piangenti, a maestri canuti, Franti lancia sassi contro i vetri della scuola serale e cerca di picchiare Stardi che, poverino, gli ha fatto solo la spia. Franti, se diamo ascolto ad Enrico, ride troppo: il suo ghigno non è normale, il suo sorriso cinico è stereotipo, quasi deformante; chi ride così certo non è contento, oppure ride perché ha una missione. Franti nel cosmo del Cuore rappresenta la Negazione, ma - strano a dirsi - la Negazione assume i modi del Riso.




Franti ride perché è cattivo - pensa Enrico - ma di fatto pare cattivo perché ride. Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una forma di virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è riso e cattiveria in Franti altro non è che negazione di un mondo dominato dal cuore, o meglio ancora di un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa. Per questo Enrico deve rifiutare Franti: perché se Franti appare un inadattato al mondo in cui vive e lo coinvolge in un sogghigno epocale (Franti mette tra parentesi qualsiasi fatto che invece coinvolga emotivamente gli altri) l'unico modo di esorcizzare la scepsi negativa di Franti è quello di denunciare Franti come strega. E di non accettarlo a priori. E infatti nel gran mare di languorosa melassa che pervade tutto il diario di Enrico, in quell'orgia di perdoni fraterni, di baci appiccicaticci, di abbracci interclassisti, di galeotti redenti e gaudenti in maschera che regalano smeraldi a bambine smarrite tra la folla, tra madri che si sostengono a vicenda, maestrine dalla penna rossa, signori che abbracciano carbonai e muratori che biascicano lagrime di riconoscenza sulla spalla di ricchi possidenti, là dove tutti si amano, si comprendono, si perdonano, si accarezzano, baciano le mani a voscienza, leccano il cuore a tamburini sardi, cospargono di fiori vedette lombarde e coprono d'oro patrioti padovani, una sola volta appare una parola di odio, di odio senza riserve, senza pentimenti e senza rimorsi: ed è quando Enrico ci traccia il ritratto morale di Franti. [...]

È naturale che in questo crescendo di accuse e di infamie la nostra simpatia vada tutta a Franti (pensate, "si copri il viso con le mani, come se piangesse, e rideva!". Anche De Amicis non rimane indifferente di fronte a tanta grandezza, e mai la sua scrittura è stata più tacitiana, nobilitata dalla materia): ma è vero del pari che tanto accumularsi di nefandezza è troppo wagneriano per essere normale, sfiora il titanico, deve avere un valore emblematico e riecheggiare un momento di civiltà; una figura della coscienza universale, lo voglia o no l'autore; e se la nostra dotta memoria cerca solo per un poco ecco che questo ritratto finisce per evocarne un altro, quasi parallelo: ed è il ritratto di Panurge. [...]  Ora Panurge non nasce e non arriva a caso: non è gigante né Dipsodo, e non entra nella regale società pantagruelica con l'aria di chi voglia sovvertire un ordine dalle radici; la società in cui vive l'accetta e vi si integra - ci beve e ci si ciba, chiedendo anzi ristoro in molte lingue - vive la vita di corte e segue il sovrano nei suoi viaggi, accetta dispute con dottori d'oltremanica e frequenta la borghesia dei dintorni. Ma si integra à rebours, ogni suo gesto appare sfasato rispetto alla norma, accetta le convenzioni (la messa) per sovvertirle dall'interno (occasione per distribuir pidocchi), intraprende discorsi ma per turlupinare l'interlocutore, veste come gli altri ma fa delle sue vesti nascondiglio per i suoi trucchi, nessuno dei quali mira specificatamente a un utile particolare, ma tutti nell'insieme a una deformazione degli umani rapporti. Proprio per questo, se Gargantua et Pantagruel è il libro che chiude un'epoca e ne apre una nuova, esso lo è proprio per la centralità che vi ha Panurge, poiché il Gargantua è, rispetto alla cultura tardomedievale che si sfa, proprio quel che Panurge è per la corte di Pantagruel, qualcosa che si installa dentro a un ordine e lo mina dall'interno deformandone la fisionomia con atti di gratuita iconoclastia. Compagno di Panurge in questa impresa, è il Riso. Anche Panurge, l'infame, rideva. Ecco dunque profilarsi l'idea di un Franti come motivo metafisico nella sociologia fasulla del Cuore. Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché Enrico identifica il Bene all'ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto ciò che si oppone a quanto una società identifica con il Bene, ed il Riso, lo strumento con cui il novatore occulto mette in dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà col volto del Male, mentre in realtà il ridente - o il sogghignante - altro non è che il maieuta di una diversa società possibile. Per cui bene aveva fatto Baudelaire a identificare il Riso con il Diabolico ed a vedervi il principio del Male. Agli occhi di Colui che tutto sa, il riso non esiste, e scompare dal punto di vista della scienza e delle potenze assolute: è chiaro: dal momento che di un ordine esistente si ha certezza e corresponsabilità, dal momento che vi si assente dogmaticamente o vi si aderisce consustanzialmente, quest'ordine non può essere messo in dubbio, e il primo modo per credervi è di non riderne. Il riso, dice Baudelaire, è proprio dei pazzi: di coloro che non si integrano all'ordine, dunque. Per colpa loro, nel caso dei pazzi; ma nel caso sia colpa dell'Ordine? Chi sarà allora il Ridente? Colui che ha avuto coscienza della caduta, e quindi della provvisorietà dell'ordine dato. Il cattivo dunque, colui che ha colpevolmente mangiato all'albero del bene e del male? Ma questa è l'interpretazione del Ridente data da chi non ride, e accetta l'Ordine. Per lo scolastico messo alla berlina da Panurge, nel dialogo con Thaumaste fatto a gesti e a sberleffi, il gioco di Panurge è un attentato diabolico. Per noi, nati da Rabelais, il gioco di Panurge è allegra profezia di una nuova dialogica, e comunque messa a punto della vecchia, resa dei conti. Chi ride è malvagio solo per chi crede in ciò di cui si ride.

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