lunedì 15 febbraio 2016

TIM E LA LIBERTÀ DI NON DOVER SCEGLIERE, OVVERO DELLA SCHIAVITÙ



di FRANCESCO GALLINA





L'uomo crede di volere la libertà. 
In realtà ne ha una grande paura. Perché? 
Perché la libertà lo obbliga a prendere delle 
decisioni, e le decisioni comportano rischi. [..] 
Se invece si sottomette a un'autorità, allora può 
sperare che l'autorità gli dica quello che è giusto 
fare, e ciò vale tanto più se c'è un'unica autorità 
– come è spesso il caso – che decide per tutta 
la società cosa è utile e cosa invece è nocivo.

Erich Fromm, Il coraggio di essere 



Da quando ho visto lo spot della TIM, credo che l'anima di Kierkegaard si sia reincarnata in Pif o nei dementi (de-mens: colui che non pensa) che curano il marketing dell'agenzia telefonica italiana. Analizzando con occhio critico, lo spot della TIM nasconde significati non solo nocivi, ma tossici e, infine, pericolosissimi. Chi l'ha detto che la filosofia è fatta di idee tutte luminose e positive? Quasi tutti i filosofi, da tremila anni a questa parte. Una buona idea, a proposito, è non prenderli troppo sul serio.

Ma, insomma, che cosa dice di così straordinario lo spot della TIM? Niente di straordinario, infatti, anzi, agghiacciante a dir poco. La morale? Liberi di non poter più scegliere. Cioè schiavi. Pensateci un attimo: libero arbitrio non significa anarchia. L'anarchia è proprio agli antipodi della libertà, perché la libertà esiste solo e soltanto se si imbocca una strada fra una, due o mille possibilità che ci vengono proposte. Se l'anarchia è confusione, la libertà è il coraggioso tentativo di ordine umano (non divino!), che riuscirà o meno, ma è un tentativo, uno step, una chance: una scelta, appunto. Non una e una sola scelta, ma tante scelte, ogni giorno, ogni ora. Tante scelte più o meno ponderate ma, lo dice la parola, scelte, cioè azioni decise, attuate, realizzate. Da potenza ad atto. Poi ci precipiteranno addosso le conseguenze, ma intanto abbiamo scelto, e questo non ci ha resi macchine, automi, computer. Scegliere ci rende vivi, con tutti i nostri difetti, ma vivi. La libertà di non dover scegliere riguarda solo i morti. Per Kierkegaard, invece, la scelta è fonte di angoscia, terribile angoscia. E allora che cosa fa? Delega tutto a Dio, con il suo mistificante concetto di fede, cioè abbandono totale nelle braccia di un Essere assoluto, più islamico che cristiano. Mentre la disperazione, malattia mortale, è data dal rapporto dell'uomo con se stesso, l'angoscia nasce dalla possibilità, dalla scelta. Dio-Tim risolve tutto, cioè deresponsabilizza allo stesso livello di Allah. 

Cosa significa non poter/dover più scegliere? Scivolare in una nevrosi mortifera e paralizzante. Significa vestire gli abiti dei protagonisti di Italo Svevo, sempre indecisi, afasici, vacillanti, incompleti, dis-abili, se non autistici nel senso psichiatrico del termine. Significa restare in quello che Søren Kierkegaard definiva "punto zero", “una scheggia nelle carni” che immobilizza l'uomo, sempre sul baratro di dover scegliere, perché scegliere, per il filosofo danese, è dramma, è tragedia. La ricerca dell'equilibrio fra forze opposte non è altro che vivere in rigor mortis, sulla base di una costante contemplazione monotona, ossessiva, spaesante. Solo i sassi stanno in equilibrio, sempre fermi, cambiati da agenti atmosferici che li levigano o spezzano a loro piacimento: i sassi non si opporranno mai. Ecco allora che il non poter scegliere è sintomo di schiavitù e, nel caso della TIM, schiavitù da tecnologia.  I discorsi, a questo punto, sono due: o la TIM vuole renderci delle amebe o non ha fatto i calcoli con le possibili controindicazioni di quanto afferma. Ovvero che un cliente come me, che di avere infinite (sottolineo: infinite) possibilità non gliene frega assolutamente nulla. E quindi può fare a meno della TIM e dei suoi spot inquietanti. 

L'angoscia è la vertigine della libertà. Bene. Anzi, male, perché allora non siamo liberi. Mai. E se comunicare è vivere, non scegliere è morire. La tecnologia - ci dice Pif - ci permette di non dover scegliere. E aggiunge, beffardo: "Non è fantastico?". 
Francamente, Pif: vaffanculo. 

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