sabato 11 giugno 2016

UN POETA A CASO, MA NON TROPPO: GIOVAN BATTISTA MARINO




di FRANCESCO GALLINA




Potremmo intitolare questo zoom poetico Giunone e il pavone, come il titolo di un film di Hitchcock del 1929. Per la consueta rubrica poetica del sabato, #busillisblog vi propone il mito del pavone raccontato dalla penna barocca di Giovan Battista Marino, autore del poema Adone (1623). Dedicato al re di Francia Luigi XIII in 5033 ottave suddivise in 20 canti, l'Adone è il poema più lungo della letteratura italiana. Il pavone, con le sue "cento pupille" rappresenta alla perfezione la ricerca del concettismo, il desiderio di pungere il lettore con preziosismi, spirito e arguzia. Le forme del pavone, i suoi colori, la sua vanagloria incarnano lo spettacolo del barocco, che si propone di stupire lo spettatore con la sinuosa danza delle sue linee. Così vale anche per l'art liberty, dove domina la linea ondulata e dinamica. Accompagniamo le ottave 81-98 con uno splendido piatto in maiolica del fiorentino Galileo Chini, i cui splendidi arredamenti ornano ancora oggi le Terme Berzieri di Salsomaggiore.




IL MITO DEL PAVONE

dall'ADONE di GIOVAN BATTISTA MARINO






Di quest’augel pomposo e vaneggiante
(disse Venere allor) parla ciascuno.
Dicon ch’ei fu pastor, che’n tal sembiante
cangiò la forma e così crede alcuno
che la giovenca del’infido amante
a guardar con cent’occhi il pose Giuno
e che, quantunque a vigilar accorto,
fu da Mercurio addormentato e morto.

Contan che gli occhi, onde sen giva altero, 
nele piume gli affisse ancor Giunone,
ed è voce vulgar che’l suo primiero
nome fuss’Argo, ilqual fu poi Pavone.
Or dela cosa io vo’ narrarti il vero
diverso assai da questa opinione;
gli umani ingegni, quando più non sanno,
favole tali ad inventar si danno.
Era questi un garzon superbo e vano,

tutto d’ambizion colmo la mente,
cameriero d’Apollo e cortigiano,
che l’amò molto e’l favorì sovente.
Amor, ch’anch’egli è pien d’orgoglio insano,
ferigli il cor con aureo stral pungente,
facendo da’ begli occhi uscir la piaga
d’una donzella mia vezzosa e vaga.
Colomba detta fu questa donzella, 

laqual veder ancor potrai qui forse,
che fu pur in augel mutata anch’ella,
ma per altra cagion questo l’occorse.
Pavon si nominò, Pavon s’appella
costui, ch’amando in folle audacia sorse.
Seben altro di lui dice la fama,
Pavon chiamossi ed or Pavon si chiama.
Oltre che di bei drappi e vestimenti

si dilettava assai per sua natura,
per farsi grato a lei ne’ suoi tormenti
s’abbellia, s’arricchia con maggior cura:
pompe, fogge, livree, fregi, ornamenti
variando ogni dì fuor di misura,
facea vedersi in sontuosa vesta
con gemme intorno e con piumaggi in testa.
Con tuttociò, da lei sempre negletto,

senza speme languia tra pene e doglie,
perché discorde l’un dal’altro petto
di qualità contraria avean le voglie.
Tutto era fasto e gloria il giovinetto
ne’ pensieri, negli atti e nele spoglie;
l’altra costumi avea dolci ed umili,
mansueti, piacevoli e gentili.
La servia, la seguia fuor di speranza 

con sospir caldi e con preghiere spesse;
e perché, come pien d’alta arroganza,
pensava di poter quanto volesse,
ragionandole un dì prese baldanza
di farle troppo prodighe promesse;
tutto l’offrì ciò che bramasse al mondo
dal sommo giro al baratro profondo.
"Poiché tanto (diss’ella) osi e presumi, 

voglio accettar la tua cortese offerta,
e del foco, ond’avampi e ti consumi,
giovami di veder prova più certa.
Recami alquanti de’ celesti lumi,
se vuoi pur ch’ad amarti io mi converta;
se servigio vuoi far che mi contenti,
dele stelle del cielo aver convienti.
Grande impresa fia ben quelch’io ti cheggio, 

non difficile a te, s’ardir n’avrai,
poiché presso a colui tieni il tuo seggio
che le raccende con gli aurati rai.
Qualora scintillar lassù le veggio
di tanta luce io mi compiaccio assai
e bramo alcuna in mano aver di loro
sol per saper se son di foco o d’oro".
O volesse fuggir con questa scusa 

quell’assalto importun ch’egli le diede,
o forse per non esserne delusa
esperienza far dela sua fede,
o perché pur la femina è sempr’usa
ingorda a desiar ciò ch’ella vede
ed, indiscreta, altrui prega e comanda
e le cose impossibili dimanda,
basta ch’egli in virtù di tai parole 

ogni suo sforzo a cotant’opra accinse;
aspettò finché’l ciel, sicome suole,
di purpureo color l’alba dipinse
ed egli uscito in compagnia del sole,
che la lampa minor sorgendo estinse,
ale luci notturne e mattutine
accostossi per far l’alte rapine.
"Su mio cor (dicea seco) andianne audaci

l’oro a rubar del bel tesor celeste,
ch’un raggio sol di due terrene faci
val più che lo splendor di tutte queste.
Di stender non temiam le man rapaci
nele gemme ch’al ciel fregian la veste,
pur che’n cambio del furto abbiam poi quelle
dele stelle e del sol più chiare stelle".
Orbe del lume e dela scorta prive

fuggian le stelle in varie schiere accolte,
e sicome talor per l’ombre estive
quando l’aria è serena avien più volte,
sbigottite, tremanti e fuggitive
per fretta nel fuggir ne cadean molte.
Pavone allora il suo mantel distese
ed un groppo nel lembo alfin ne prese.
Giove, che vide il forsennato e sciocco 

giovane depredar l’auree fiammelle,
sdegnossi forte e da grand’ira tocco
gli trasformò repente abito e pelle;
l’orgoglioso cimier divenne un fiocco
e nela falda gli restar le stelle;
Febo, che pietà n’ebbe e l’amò tanto,
per sempre poi gliele stampò nel manto.
Del ciel l’ambiziosa imperadrice 

tosto che vide il non più visto augello
che’l pregio quasi toglie ala fenice,
il volubil suo carro ornò di quello;
poi le penne gli svelse e fu inventrice
d’un istromento insieme utile e bello
ond’ale mense estive han le sue serve
cura d’intepidir l’aura che ferve.
Ed io, che soglio ognor qualunque imago 

scacciar dagli orti miei difforme e trista,
d’averlo ammesso qui godo e m’appago,
ché grazia il loco e nobiltà n’acquista,
perché natura in terra augel più vago
non credo ch’offerir possa ala vista,
né so cosa trovar fra quanti oggetti
invaghiscano altrui, che più diletti.
Vedilo là, ch’a’ più bei fior fa scorno 

e ben d’altra pittura i chiostri onora,
con quanta maestà rotando intorno
di mirabil ghirlanda il palco infiora.
Perché crediam che sì si mostri adorno,
senon per allettar chi l’innamora
e per aprire ala beltà, che mille
fiamme gli aventa al cor, cento pupille?


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